Il secondo giorno si va sul palco, “pezzi di teatro in tanti round” si direbbe, citando la raccolta Ubulibri dedicata a Rodrigo Garcia. In scena va la fragilità dell’equilibrio: Giuseppe è un regista e non vuole fare l’attore, ama il teatro dialettale ma qui fa da secondo a Garcia e s’è trovato a fargli da traduttore fin dal primo giorno, in ogni occasione; questa volta però fa il suo mestiere, un suo incubo ricorrente mi dice, prende così due performer, i migliori per il suo incubo, Alessandra che è italo-francese, e Celso che è spagnolo, ma non è determinante la lingua qui, ci si intende in un frammento, in uno spazio esecutivo istantaneo: nudi, coperti di solo domopack, custodiscono uova in grembo e fra i genitali, devono evitare di farsele rompere in una lotta fra uomo e donna, ma come pensare di farlo…le uova sul palco, un terreno scivoloso, fragile, in cui ballare la salsa della loro vita: è qui, nel ballo del disequilibrio, il nucleo fondante di questo incontro con Rodrigo Garcia.
E così pian piano sperimento, io testimone, i semi della creazione.
Ne vedo una sequenzialità non narrativa ma poetica, che pian piano prende forma e diventa più cosciente, un frammento dopo l’altro s’accumula materiale fragile, ma è questo che servirà alla maturazione del lavoro, ora non giudicabile: “miniature” dice Garcia, piccole potenze di sé esplodere in tanti furiosi atti; bello è vedere la qualità al servizio di questa creazione, la sequenza asimmetrica fatta di fiammate creaturali, di apparizioni a briglia sciolta che sanno dare misura – qualora fosse possibile – di quella che sappiamo chiamare libertà.
Quel che sempre mi sorprende, in questi laboratori, è la connessione che si riesce a stabilire, la comunione prima umana, poi artistica, che sono poi la stessa cosa. Ed è bello vedere il fisico che si tende, le inibizioni che cadono una dietro l’altra, la cattività imbizzarrita che pian piano cresce ed esplode, corrosiva, sul palco e dentro di loro. Garcia non può fare altro che ascoltarli, come ci si mette a sentire un cuore che batte e non è il tuo, con l’orecchio sul petto, a scandire una vitalità che si sente propria perché simile, ma che ad altro urgenza di vita appartiene; il suo lavoro è soltanto affiancarli, contrastare la gratuità di quell’esperienza, togliere le protezioni cui d’istinto ci si riduce, individuare e nettare il confine tra l’arte e l’ostentazione.
Bello, bello essere qui e vedere continue nascite.
Bello vedere quegli equilibri cadere, la precarietà eletta a sintassi dell’anima, ossia gli elementi della lingua intima che si compongono in parole, in espressione; è così che, subito dopo aver traballato su un disequilibrio, il miracolo li porta a camminare su quella strada come fosse certa e battuta: Giuseppe è un regista, non vuole fare l’attore: buona parte del terzo giorno però la passa nudo sul palco, in una performance improvvisata in cui perdeva, morendo a ogni passo, tutti i sensi delle sue costrizioni. Ed è allora che El mal camino, diventa pian piano, la strada giusta.
Simone Nebbia