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Secondo giorno a Short Theatre: riapre per un giorno, il Mattatoio di Testaccio

Cosmesi – pensiero beige

La storia è drammaturgia. Ormai ne sono convinto. La penso così appena giro l’angolo lungo il corridoio parrucchiere-shiatsu-biglietteria e alla fine anche la libreria “portatile” di Editoria&Spettacolo, Maximilian La Monica, che sta ovunque, è diventata un po’ come la libreria di casa dove sai che libri ci sono, perché ce li hai messi tu…ma resiste Maximilian, in quest’epoca in cui pubblicare libri e oltretutto sul teatro è di per sé fantascienza. La storia di questo posto è letteralmente pelare i suini, da qui il termine poco glamour e perso nei tempi di Pelanda. Qui ha deciso di spostare il suo Short Theatre Fabrizio Arcuri, pioniere di uno spazio in fondo da riassegnare alla città. Fare un festival di teatro al mattatoio nell’epoca del digiuno finanziario e dell’annientamento culturale è quanto mai ridondante, ma il teatro si occupa della verità, come tale non può non tener conto della storia dei luoghi. Dunque se la storia – dice Marx – è prima tragedia e poi farsa, della tragedia sanno i suini appesi e scuoiati, della farsa ci occupiamo noi pelati e dissanguati da un sistema tritacarne che avvicina i tagli economici a quelli sotto la gola del maiale.

Oggi si arriva presto perché al palco grande si presenta la nuova edizione di Novo Critico, progetto di interazione tra artisti critici e pubblico che è stato stoppato dalla mancanza di soldi per un anno, senza passare dal via però perché quest’anno Elvira Frosini di Kataklisma ce l’ha fatta a riproporlo. Con lei a presentarlo Roberto Ciancarelli della Sapienza e Donatella Orecchia di Tor Vergata. Le prima due università insieme. Potere del teatro, unire. Si comincia nella sede del piccolo teatro del Pigneto l’8 ottobre con Daniele Timpano che propone il suo studio su Aldo Mor(t)o, in coppia con Nicola Viesti, critico che leggiamo su Hystrio. Al progetto serve una spinta forte perché questo ruolo di mediazione invece che rivendicato va svolto, quindi dice giustamente la Frosini: “il critico viene a fare il critico, alla presenza del pubblico”, perché il suo ruolo è sociale, è stare nel mezzo e agire quanto agisce l’artista. Ci andremo, per questo e per i tanti suggestivi incontri. Perché è uno spazio di confronto necessario e urgente. Sullo stesso palco ora c’è da fare spazio perché arriva la follia di Bizarra, teatronovela in dieci puntate di cui ora ci viene proposto un tea-trailer. Il testo è di uno dei più grandi drammaturghi del mondo, Rafael Spregelburd, che nell’epoca della crisi della sua Argentina decise di creare un format esclusivo, cui tutti gli artisti potevano partecipare ed essere utili alla crisi del paese almeno quanto il paese era utile a loro. Un successo clamoroso. Era il 2003. Oggi Manuela Cherubini, regista che di Spregelburd è traduttrice per Ubulibri, non da regista ma da guida, si fa carico del progetto di portarlo in Italia, secondo gli stessi dettati politici di intervento diretto. Il primo che trova la connessione fra le due situazioni politico-economiche ha vinto una comparsata in Bizarra. Perché a partecipare è un intero ambiente, siamo tutti, perché tutti siamo colpiti e compromessi. Il trailer è simpatico, caotico, ma è quel che serve: la folle avventura della Cherubini avrà luogo da ottobre in poi all’Angelo Mai. E anche qui, ci saremo.

Sergi Faustino – Nutritivo

Dunque vediamo un po’: Aldes l’ho già visto ieri…ah ecco! Oggi per IYME c’è un danzatore portoghese, Joao Costa, che nome più portoghese non lo poteva avere, sembra finto. Ma lui è vero però, il suo Simon 06.07.08.09 è uno spettacolo minuto, composto esclusivamente della sua coreografia cupa, che dall’oscurità trae una forza tutta umana che vuole mettere però in discussione. Curioso che anche qui, come Le Supplici di ieri, ci sia un filo che lega costrizione e libertà. I suoi movimenti sono piuttosto fluidi e del tutto corporei, forse difetta un po’ nella sequenzialità delle azioni, non è che proprio mi coinvolga del tutto, ma è molto bello il finale che lascia l’anima a noi portandosi via il corpo. Più bello ancora è che a fine spettacolo, in inglese, ci chieda se vogliamo parlare, confrontarci, chiedere qualcosa. Graziano, che come evento performativo è riuscito a tagliarsi i capelli allo stand di Sefora tra uno spettacolo e l’altro, sa il portoghese e sfodera qualcosa del tipo “magari dopo che adesso dobbiamo correre in un’altra sala…”, e infatti ci corriamo perché ci inizia Pensiero*beige, di Cosmesi. Sbagliamo sala almeno quattro volte, mentre suona un allarme antincendio che sembra di stare dentro un film d’azione americano, penso a qualcosa tipo L’invasione degli Artefatti, che potrebbero essere attori mutanti col corpo di Marilyn e la faccia di Albertazzi…mio dio…ma no, dobbiamo trovare Cosmesi! E dopo lunga corsa, troviamo la fila per entrare a vedere questi 15 minuti di Eva Geatti e Nicola Toffolini. Pensiero con l’asterisco il loro, per dire che è proprio loro e di nessun altro. E infatti questo loro percorso ha una riconoscibilità che mi piace ed è molto originale nella sua minuta e delicata evoluzione. Perché c’è una evoluzione, c’è un intento di costruzione che parte dal piccolo dei pensieri e cerca una esplicita qualità epifanica, di apparizione. Di bello c’è che non eccedono mai, ma di quei piccoli passi fanno un sentiero. Beige è la Geatti, sola in scena con parrucca bionda sui capelli biondi. Beige è una circonferenza, è la sabbia su cui scrivere, futile impresa per definizione. Beige è una suggestione che riconosco e mi fido a setacciarne l’onestà, mi fido perché vedo elementi umani nascermi di fronte, come l’ipnosi della musica sempre più distorta, disturbata forse da un grammofono o comunque da una tecnologia vintage, come forse lo è il pensiero piccolo, nucleare, chiuso nell’uovo/mente di chi lo pensa. Scrive poi, in beige, su quella sabbia. La sua verità che lei stessa cancella. Perché si tratta di sabbia e siamo noi a ucciderne il senso che la frase si porta, soltanto camminando sulla circonferenza a rompere i contorni, poi meglio con una scopa di saggina perché così deve finire: noi siamo la nostra definizione, il mondo è il nome che porta. Il pensiero è il primo sacrificio che si fa, a dover vivere questo mondo recluso.

Adesso tenetevi forte, perché la drammaturgia ha sempre il suo colpo di scena. Siamo al vecchio mattatoio di Roma, qui dentro si sgozzavano maiali, Sergi Faustino dalla Spagna mai come qui, poteva essere a suo agio, nella doppia veste di matado e matador. Nutritivo è il suo spettacolo, che comincia un po’ prima e infatti fa da nutrimento la tartina di sanguinaccio che ci porta su un vassoio prima di entrare in sala. Mai accettare caramelle da uno sconosciuto, mi ripeto, soprattutto se lo sconosciuto ha il viso dipinto di bianco e gli occhi e la bocca grondante in nero. Quando chiama un infermiere in sala per farsi prelevare il sangue qualcosa già l’abbiamo capito, e infatti dietro c’è qualcuno che sviene e lo portano via, ma quasi nessuno se ne accorge. La fiala di sangue finisce dritta nel pentolino, con carne spezie e un pizzico di sale quanto basta, e via a fare lo spettacolo. Faustino è un blackero, satanista, appassionato di black metal. E ce lo racconta questo mondo, ce lo racconta su un testo affannoso, poco teatrale, molto diretto con le luci in sala accese. Ci racconta di gente che uccide perché vuole capire che si prova. Bolle intanto la pentola, bolle sugli occhi di alcuni spettatori la percezione di aver capito cos’è appena accaduto. Poi danza Faustino, e questo ce lo poteva risparmiare (si può dire di uno spettacolo così anche che manca di una regia e che ha dei notevoli buchi dispersivi, causa di una incompiutezza formale? Mah, se si poteva dire l’ho detto…). Infine il racconto di una morte come tante, incidente stradale, ma fino nel dettaglio cruento degli ultimi respiri di un corpo di uomo. Un profumo si sparge per la sala. La cena è pronta. E fra noi dalle facce non riconosco Hannibal Lecter. In fondo, dice, il nostro sangue è anche più pulito e controllato del maiale. Faustino continua a parlare, mi ricorda l’intenzione morale della violenza in qualche performance di Leo Bassi, ci parla della paura, dice di volercela mostrare, nel frattempo prepara le stesse tartine di prima. Ce le lascia in offerta: la nostra immobilità, il pensiero retroattivo, il profumo una volta invitante e ora disgustoso: questa è la paura. Qualcuno si alza, scende dalla platea, colpo di scena: mangia il suo sangue. Altri lo seguono. E non sono attori perché li conosco bene. Ecco allora che Marx aveva torto sulla storia, almeno stasera: dove va il teatro contemporaneo? Se il primo passo è la tragedia, il secondo la farsa, posso ben dire che questa è davvero rottura dei generi. Poco dopo, il dj set di Bestiario mostra in video maiali sgozzati da vivi. Avanguardia? Dopo quello che ho visto stasera, è come vedere Goldoni…

Simone Nebbia

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