Me l’avevano detto, che avrebbe fatto caldo. Ma quando si va in montagna ci si prepara sempre al peggio delle intemperie peggiori, così il saluto all’estate si fa direttamente usciti di casa, all’alba, perché ti aspettano sei ore di viaggio per arrivare fino a Bassano del Grappa, dove OperaEstate Festival Veneto tiene una finestrella neanche troppo angusta sul teatro contemporaneo, che si chiama BMotion, che non è la serie B, ma il lato B del teatro italiano, quello dove di solito sta la canzone che un giorno tutti diranno essere un capolavoro e il lato A non lo ricorderà nessuno. Ma invece le aspettative le tradisce un’estate ancora alta, di qua e di là dei lati del disco, di qua e di là dal famoso ponte cantato dagli Alpini e minato dalle guerre. Quel ponte l’hanno ricostruito più volte, una certa tenacia questi bassanesi: oggi è un gioiello fra due pareti del mondo, lungo il magico corso del Brenta, con i pescatori nel mezzo e un pratino ai lati così bello che sfido a non pensarci una bella notturna del “sogno” scespiriano. Tra i due lati l’umanità che si avvia all’uso delle sue giornate cristalline, turisti in cerca di fotografie suggestive, matrimoni alla rinfusa che confondono invitati e passanti, qualcuno temerario in costume sul pratino lì sotto, avventori del Nardini che si affogano dal primo pomeriggio nel “mezzo e mezzo”: campari e rabarbaro, praticamente chinotto con scorza di limone. Una sciccheria. Un ponte unisce, mi dico camminandoci attraverso. Almeno quanto un fiume divide. In mezzo sta l’equilibrio dell’uomo che prova a vivere la natura e le opere che con essa cercano accordo. Proprio su quel ponte, mentre mi affaccio con Andrea e Sergio per guardare il Brenta, il primo che incontro è Fabio Biondi a chiamarmi e sorridere, così penso che se lui riesce a tenere duro con la sua magia dell’Arboreto a Mondaino, quella enorme noce immersa nel bosco romagnolo, allora davvero ce la possiamo fare a costruire sempre ponti, dove l’acqua ci passa attraverso.
Siamo tutti qui per il convegno sullo stato del teatro contemporaneo, per cui si cercherà di dar vita a un comitato di lotta politica; per questo siamo in tanti e così tanti la sera, ce ne andiamo a vedere gli spettacoli. O meglio, quasi la maggior parte sono supposizioni per uno spettacolo. Il primo è la terza ipotesi, appunto, di Santasangre su Bestiale Improvviso, con tre performer danzare in scena; più di una ipotesi credo piuttosto si tratti del contrario, ossia il tentativo di creare confusione quando idee cominciano a mancare, ma spero vivamente di sbagliarmi; il fatto che si tratti di uno studio ancora piuttosto freddo, dopo gli esperimenti di Framerate 0 di cui non so ad oggi svolgimento, riferisce di una sensazione che tacerò fino a Romaeuropa Festival, dove presenteranno l’opera completa. Per ora, visto il fumo denso e impenitente con cui hanno annientato la sala, evocando per motivi personali e non svolti la distruzione nucleare, l’unica cosa che mi viene da dire è: rimandato per nebbia, ma non solo per. Quanto a Stato di grazia, spettacolo di Plumes dans la tete di Silvia Costa, sta invece un passo indietro, alla seconda fase. Oggi costruire spettacoli sembra un processo scientifico. E infatti per capirli dovresti passarli al microscopio. Qui siamo ad una performance, singolare: l’ambientazione è post atomica, e dopo i Santasangre ci sta a pennello, dove una donna si risveglia dalla crosta gessosa in cui era compressa, la rompe, si alza, forse accade qualcosa e ne sarei molto contento. E invece niente, nessuna evoluzione drammaturgica: niente da segnalare. L’attrice continua a reiterare movimenti in scarso accordo, appende la sua armatura di gesso alle pareti, si veste da infermiere del padiglione di malattie infettive e cerca ossa in mezzo ai resti di gesso. Prometto che porterò questo spettacolo a un centro diagnostico di ricerca molecolare.
Riprovo il giorno successivo, con maggiore impegno. È venerdì e riesco a vedere anche un estratto degli Appetizers letterari di Luca Scarlini, nei bar del centro tutti i giorni, con gli attori del suo laboratorio. Gustosi assaggi. Di Enimirc, Fagarazzi&Zuffellato, saprei ironizzare sulla “&” commerciale che li lega, ma comprendo poco dello spettacolo perché non l’ho visto, ma vissuto da dentro. Quindi credo non essere in grado di darne notizia. Soltanto ho l’impressione ci si annoi un po’, anche dal racconto di altri, e che l’operazione (che non svelo) sia un po’ vecchia e poco teatrale la suggestione che vorrebbe creare. Segue Pathosformel, La prima periferia: i giovani performer portano in scena l’idea interessante di lavorare con manichini delicati che rimandano alla fragilità umana, hanno una capacità tecnica di rilievo, tuttavia dopo aver portato l’idea e i materiali non hanno di che costruire e ne nasce una voragine drammaturgica manchevole di una qualsiasi evoluzione tangibile, che affonda inevitabilmente nella noia. Bravi, bravissimi. Ma non so a fare cosa. Anche stasera, dunque, somma zero.
Terzo e ultimo giorno: sabato. La prova del nove. Anagoor sta alla terza tappa, stavolta si chiama tappa. Ma evitare di trovare termini comuni credo faccia parte della visione utopica degli artisti contemporanei, il cui tentativo di instaurare comunicazione con chi ascolta è davvero l’ultimo dei problemi. E però ne hanno tanti questi Anagoor, la cui Tempesta in fondo m’era anche piaciuta: questo nuovo lavoro che si chiama Fortuny è forse il risultato peggiore che ho intravisto in questo festival: sciatto e impreciso nella stimolazione visiva (perché quella uditiva la tralascio visto che è identica alla maggior parte degli spettacoli che vedo da molto tempo), impalpabile nella motivazione, assente nella drammaturgia:
anche qui nessuna evoluzione, movimenti lasciati al caso di una comprensione che si spera arrivare dagli spettatori, così da poterlo spiegare agli artisti. Se al posto della scheda avessero copiato la Gazzetta dello Sport avrei capito meglio. Non restano che i cari vecchi Babilonia Teatri, ormai che fanno spettacoli da tre anni, ma per quanti ne hanno fatti sono vecchi di diritto. Il loro nuovo lavoro, che si vedrà a distanza, si chiama The End e mantiene fin qui fede alle promesse fatte nei loro lavori precedenti, valorizzando frontalità e potenza espressiva. Ci sono a mio avviso novità da indagare e svolgere più a fondo, ma sapranno farlo. Per ora dirò soltanto che ho provato un paio di brividi sulla pelle e non è cosa da poco. Ma non scrivo di più, ché sarebbe un servizio a chi tratta questi lavori da semplice prodotto e ne fagocita il tempo di creazione. Inoltre rischio di bruciare la recensione di uno spettacolo che potrebbe essere diversissimo. Ma anche fosse finito qui riconosco allo spettacolo una drammaturgia compiuta, e visti i risultati precedenti non mi sembra poco. Chiude Ambra Senatore, con Sandro Mabellini e letture di Rosella Postorino, per il primo studio di Nel lago. Infatti di uno studio si tratta: simpatico e gradevole, ma non più di uno studio scolastico di danza contemporanea per diventare simpatico e gradevole. Alcune malizie sono davvero stimolanti, altre meno. Forse non è ancora chiaro il ruolo della Postorino, scrittrice tra l’altro apprezzata di narrativa, che qui non ha ancora una posizione chiara. Però ci si diverte, e tanto basta. Si vedrà con il tempo la strada da prendere, quando aumenteranno le pretese e le responsabilità artistiche. LIS infine, che non è il linguaggio dei segni ma il progetto di stimolazione sensoriale: mi sembra piuttosto scarico e basta avere una minima esperienza nel settore, ossia aver già fatto un’esperienza simile, perché perdano il confronto. Diverso il discorso se fosse per le scuole, lì credo vivamente che possa funzionare.
Un ponte, mi dico la mattina dell’ultimo giorno andando via, un ponte che collega due pareti di mondo. O due mondi, in una visione eterocentrica. Bassano l’ha ricostruito più volte. Il teatro sembra voler continuare a romperlo evitando relazioni che invece sarebbero davvero fruttuose. Teniamolo bene a mente: la storia riconosce solo due categorie, modernismo e tradizione, che si alternano a grandi cicli vitali. Altrimenti per quale motivo i bassanesi continuano a ricostruire un ponte datato 1569? Impariamo a riflettere, dalla loro resistenza alla moda, dal loro senso della connessione dei mondi.
Simone Nebbia