Sento da troppi anni un ritornello che mi piace poco. Il teatro è sempre politico, mi si dice. Questo sarebbe vero se riuscissimo, oggi, a definire cosa è teatro e cosa invece esclusiva forma spettacolare, estensione di gestualità, intrattenimento. Quindi nella più totale incapacità a definire, con difficoltà riesco a rintracciare l’affermazione. Il teatro è politico quando si occupa della coscienza civile, della crescita sociale, della germinazione individuale che si moltiplica collettiva. È politico il teatro che muove, che imprime e anche sconfigge. Non lo è la didascalia insipiente del realismo, la versificazione sia anche generosa e intelligente dello svago, non lo è l’impostura dei tromboni. Lo è il teatro di Virginio Liberti di Egumteatro/Gogmagog, lo è il suo Quanto mi piace uccidere… interpretato con una forza asettica e puntuta da un ottimo Tommaso Taddei
Taddei è un politico in ascesa e si sofferma sul percorso che l’ha portato fin lì; comprime le immagini della sua infanzia in un quadro macabro e orrendamente aderente, al punto di stimolare quasi pietas, nell’ultimo tratto della sua caduta. La sua storia asseconda una inclinazione familiare alla violenza cannibale (vaghi ricordi dell’Anna Cappelli di Ruccello), la forza del testo è non celarla ma renderla pubblica, addirittura di fronte agli elettori, questo sentimento di confessione che attraversa la sala pervade la coscienza individuale e colpisce frontalmente, senza indugiare. Liberti ha compiuto un lavoro di totale sottrazione: la scena è nuda, il solo attore vestito in abito consono al ruolo, nessuno musica né effetto speciale: basta la parola, per mettere in crisi la parola stessa, e il pensiero che vi sottace. Il discorso ricalca la prassi di comunicazione della politica attuale, la mostra delle vanità e insieme la teatralizzazione della stimolazione elettorale in cerca di voto: la centralità dell’attore è dunque assai efficace per rappresentare quella falsa interazione interamente populistica, rinnovandone temi e modalità (“io vi emoziono perché mi emoziono”, dice uno degli slogan del giovane e rampante dirigente). Altro elemento di forte interesse contenutistico è la lotta al falso manicheismo: bene e male non hanno casacca ma stesso sangue, questo pare voler dire Liberti.
Quel che maggiormente colpisce è la quasi totale aderenza del percorso attorale rispetto al testo: lo spettacolo ha tre parti degenerative, Taddei ne segue il disfacimento senza bruschi strappi di facile cattura, ma ne addolcisce i passaggi più duri, concedendo a chi ascolta il peso di quella storia distruttiva, impedendo facili scappatoie di formale inappartenenza in cui spesso uno spettatore prova a fuggire: qui non è possibile, la compromissione passa per gli occhi dell’attore con la stessa facilità con cui da lui, con abile senso della traduzione in arte scenica, si trasferisce alla nuda percezione. In questo la sua abilità è quella di aver creato un tessuto espressivo in cui poter fare emergere una materia così poco malleabile, aver seguito in maniera speculare la scala delle emozioni e il suo delirio; anche la postura suggerisce dapprima la frontalità del contrasto delle idee, delle contrapposizioni faziose, poi i tendini di Taddei si sciolgono quando deve richiamare la memoria a un passato che del miele ha prima la dolcezza, poi la collosità astringente; finché l’alterità, il disturbo mentale, il disordine delle emozioni, non si articolano in una esplosione adrenalinica. Ne nasce uno spettacolo accogliente almeno quanto destabilizza: è la malia del lupo che attira la vittima, è l’esercizio del potere, con la sola differenza che il lupo è ferito e, bramoso di sangue, si azzanna: vittima di sé stesso.
Simone Nebbia
Visto venerdì 30 luglio 2010
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