Giuro che se viene la rivoluzione, io mi metto con le contrade senesi. Un tè pane e marmellata nel B&B dove stiamo alloggiando è l’occasione giusta per farci raccontare un po’ di storia contemporanea: “tra qualche giorno c’è i’ Palio – ci mette in guardia il padrone che ne ha visti un monte, dice – state attenti a dove vo’si mett’i piedi che l’è pieno di tombini…”, con questo intendendo che rivolgere apprezzamenti a un contradaiolo senese di questo periodo è almeno sconsigliato. Lui è della Lupa, la moglie della Chiocciola; quando è nato il figlio, Luigi, il padre l’ha rubato e battezzato alla Lupa. Roba che farebbe arrossire un massone. Pare che un americano, per aver detto ch’era solo un gioco, abbia lasciato l’occhio destro dentro una mano tesa, poco tempo fa. Insomma qui l’appartenenza è un vezzo fra razzismo e solidarietà. Farebbero a pezzi un fantino venduto, ma se manca sangue per la contrada se lo tolgono a pompa. Una lezione d’acciaio, mentre mi godo questa mia seconda giornata a Siena per Voci di Fonte.
Oggi si replica Biancofango, Fragile Show già visto ieri. Poi ci saranno concerti. Però riesco a imbucarmi per una prova aperta di uno spettacolo che sarà quando sarò tornato: Massimiliano Poli fa Il giocatore di Dostoevskij, Annalisa Bianco di Egumteatro alla regia. Va di gran moda la letteratura russa: qui l’assurda presentazione di Pushkin di ieri, in giro per l’Italia da Stein in giù i festival ne sono pieni. È un romanzo breve per Dostoevskij, «soltanto» 240 pagine in economica, ma possiede dentro un ritmo che al teatro sa dare molto, e con grande sapienza e rigore la Bianco adatta il testo per una riduzione teatrale di gran pregio, senza eccessi ma con la dedizione di cui c’è profondo bisogno quando ci si rapporta a simili capolavori. Quel che maggiormente colpisce nella storia al tavolo da gioco che fu di Aleksej Ivànovic e l’intera società russa del tempo, è la solidità strutturale determinata da un equilibrio simmetrico, che non si pone mai oltre la storia ma la sa valorizzare per le caratteristiche già molto forti di cui si compone e per questo è elemento primario e cardinale: il centro è il tavolo verde, due sedie attorno, nulla di più; caratteristica assai efficace poi è la semplicità, davvero scelta giusta per evitare quell’eccesso, che denuda di tutto lo spazio scenico lasciando all’attore la capacità di emergere e lo fa Massimiliano Poli, che permette allo spettatore la prossimità emozionale alla caduta, alla schiavitù del vizio, con lentezza evocativa ma senza mai calare nel ritmo: è un attore di grande spessore, soprattutto è un attore davvero, ossia un traduttore professionale di un bouquet di sentimenti, il vero responsabile e punto ultimo di quella meraviglia che accade in scena, con la misura restituisce del testo tutti i valori che si porta e mi lascia una storia, questa sera, come l’avessi sentita in osteria nelle notti del gioco d’azzardo, una storia di vita e di perdizione, una storia raccontata da un uomo e, anche e soprattutto per questo, una storia umana.
Dopo i concerti I suoni di sempre di Ares Tavolazzi, Stefano Cantini e Giulio Stracciati e Ritratti di donna di Maria Laura Bigliazzi alle Fonti di Pescaia, in forse fino all’ultimo ma che poi la pioggia ha risparmiato, restiamo ai tavoli della cena fino a notte fonda. Con me e Sergio Lo Gatto c’è Attilio Scarpellini, generale della mia militanza appena arrivato, poi i Biancofango in formazione tipo: giornalisti contro artisti, squadre schierate, noi d’angolo, loro già a centro ring; ci lasciamo tempo, parliamo, cerchiamo di capire come fare, dove andare, cosa dobbiamo buttare giù, quale Bastiglia dobbiamo assaltare – Francesca Macrì la regista è giacobina più di me – poi ripenso alle contrade, che tra pochi giorni c’è il Palio e allora capisco che non siamo avversari, che questa partita va giocata proprio insieme. Non importa cavallo o fantino, importa la piazza. Quella del Campo alla greca che converge alla centralità, per farci teatro è davvero perfetta.
Simone Nebbia
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