Così, nel vuoto. Senza timore di essere letto, perché ci sarà troppo da fare a spartirsi questa ambita poltrona piuttosto che percepire cosa si dice attorno alle proprie scelte nell’ambiente di riferimento, che di queste scelte vive e a volte subisce la portata. Quindi per i nostri/miei sparuti lettori dico che il pezzo seguente nasce dall’opportunità che mi ha offerto la scorsa estate il festival Armunia di Castiglioncello, festival sull’orlo della soppressione, di essere loro ospite e seguire – per due repliche di fila – l’Amleto a pranzo e cena, opera davvero mirabile di Oscar De Summa, attore e regista per altri tre attori formidabili: Angelo Romagnoli, Roberto Rustioni, Armando Iovino. Questo perché si proverà il brivido di una recensione a memoria, ché il Teatro di Roma presso cui era in scena lo spettacolo la scorsa settimana, ha deciso di non concedere accrediti e quindi mi ha impedito di fare il mio lavoro, così allontanando anche quei pochi che seguono un ambiente e ne sentono con passione le sorti. Ma d’altronde il Teatro di Roma di me non sa nulla, della nostra rivista, né delle riviste come questa che non hanno di che vivere ma seguono affannati ogni salto di pesce di una qualche piccola evidenza sopra e sotto il pelo dell’acqua, non sa nulla di ciò che si muove nell’ambiente vivo e fiorente di questa città e sopravvive di vita propria, pensando invece che questo basti a vivere.
Lo vidi due sere di fila, questo lo ricordo bene, per vedere se il coinvolgimento della prima serata fosse improvvisato e figlio di condizioni esterne o davvero mi trovassi di fronte a uno spettacolo grandioso: optai per la seconda risposta, perché davvero fu esaltante scoprire un progetto che, pur divertendo, non sovverte né dimentica il carico dell’opera shakespeariana, forse rispettandola ancor di più che tenendone una versione integrale e ciecamente integralista. Questa qui di versione la definirei errante, come fosse una saga giustamente di stampo nordeuropeo, ma con qualcosa di picaresco che smitizza l’aura magnetica attorno alla storia e riconduce all’umano con inalterata potenza. Oscar De Summa è regista maturo che qui lascia più spazio in scena ai suoi attori (ritagliando per sé i ruoli femminili) e si dedica a tenere insieme le briglie di quel che avrebbe potuto essere un cavallo impazzito e invece conduce gli attori e gli spettatori alla mèta con grande puntualità espressiva, non cedendo mai di ritmo e divertendo sapendo di utilizzare Shakespeare e non raccontando barzellette. Estremamente funzionale a mio avviso la scelta stilistica che sceglie cambi scena ampiamente visibili e definisce la simmetria con un quadrato di cassapanca, ospite dei personaggi in panchina, in attesa di entrare e fare il loro perché questo sporco Amleto va fatto, portato alla fine, comunque vada. De Summa dunque sceglie l’attore, costruendo una struttura in cui “agire” i suoi interpreti per un umorismo sottile e di gran qualità, una finezza che gioca con i cliché del teatro e di un testo così abusato, così facendo sfrutta la quarta parete permettendo loro di entrare e uscire dai personaggi con tanta leggerezza. Amleto stesso ha un rapporto con il pubblico diretto, i cui “a parte” tradiscono la sua responsabilità dell’opera: gli altri personaggi non sanno più in che tragedia si trovano, così ne chiedono lumi a lui che quindi deve dirigere da dentro un re rimbambito, una madre svampita, Polonio traffichino, Rosencrantz e Guildenstern che si confondono le battute come fossero Stanlio e Olio: De Summa dunque si fida del grottesco, usa la parodia a fini intellettuali ed è degno del miglior Mel Brooks.
Ahi, la memoria! Può tradire a volte, ma il valore di questo spettacolo non è forse anche dal mio ricordarlo a distanza di un anno con tanta evidenza? I personaggi così usuali e moderni e umani e nostri, sono colti nella loro più netta sincerità, segno che un classico è una opportunità, se si sa vedere questo si può davvero affrontarli, non rileggerli che sarebbe presunzione ma, finalmente, leggerli. In ultimo, perché la memoria sarà anche fallace ma certe volte è di una esattezza inesorabile: al ritorno di Laerte dalla Francia i quattro cantano una canzone francese, una ragazza tra il pubblico toscano iniziò a cantare con loro; ecco, mi dico: la capacità osmotica del grande teatro abbatte le differenze, accomuna tante persone dentro un’opera straordinaria, smaterializza di colpo ogni tentativo di – spettacoli come questo – non farceli nemmeno vedere.
Simone Nebbia
mi associo in pieno. non riesco nemmeno a dire “una vergogna”, è proprio “una cosa sbagliata”.
Io che lo spettacolo non l’avevo visto l’avrei visto volentieri, anche pagando (non sarebbe stata la prima volta).
Ma quando dall’altra parte si struttura, bizzarra, una mossa di principio, reagisco (e il mio giornale con me) con un rifiuto altrettanto di principio.
grazie della tua memoria.