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L’urlo degli Omini invade il sesto giorno di Teatri di Vetro

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E finalmente! Erano giorni che me ne stavo assopito in un limbo percettivo in attesa, m’ero accucciato negli angoli bui di un festival per dirne non solo i fiumi principali, ma tutti gli affluenti torrenti e ruscelletti che al mare ci vanno pure loro, e finalmente all’alba del sesto giorno di Teatri di Vetro, che lo dico solo per l’ampollosità della frase, ecco arrivare l’urlo che aspettavo. Lo fanno Gli Omini, quattro spericolati megalomani pistoiesi, cui devo un’ora e più di risate che non mi chiedo da dove vengano o in quale parte del corpo arrivino: esplodono, punto e basta. E quanto ne avevo bisogno. Sento che sta qui molto di quella capacità osmotica che riesce ad avere l’arte della scena, consegnare sentimenti a chi ascolta, esaltare e deprimere, acquietare e irritare, ché una bomba esplode in mille frammenti diversi, mica uno solo. Altrimenti sarebbe uno sparo soltanto, sai che tristezza se nemmeno colpisce il bersaglio.

L’urlo era già partito, a dirla tutta, quando nel piazzale un presidio No CIE che una volta erano CPT, residenze per immigrati clandestini con tutti i conforti dell’accoglienza tipicamente italiana, alberghi extralusso con il mare per piscina e aria condizionata, sì, ma dall’affollamento dei corpi. Gridano anche loro e chiedono una firma, ché questa è la settimana (fino al 29…) di mobilitazione per far chiudere questi lager 2.0, e come dir loro che non sono nel posto giusto? Il festival del teatro indipendente, l’espressione dell’asfalto urbano: abbiamo in comune una fragilità pure tenace, il vetro dei nostri teatri è un’ampolla che accoglie anche loro, come ho già pensato qualche giorno fa che a vedere Tratte di Gaspare Balsamo c’era sala piena di chi, la tratta, l’ha fatta per davvero. Al loro fianco si preparava una sorpresa, un’altra ampolla, questa volta gonfiabile con dentro Giovanni Magnarelli, attore visto ieri nella vetrina coreografica, cresce la sua inquietudine cittadina insieme al fiato che la terrà tesa, per tutto il suo divertente Sconcertolamento da stress. Magnarelli inscena quello che una pubblicità degli anni Settanta aveva detto il logorio della vita moderna, e lui come gli anni Settanta è vestito, corre a definire questa bella estetica da fumetto (rintracciata già nel suo spettacolo di ieri…) mentre le voci registrate su più timbri lo guidano a perdersi dentro la bolla nervosa che lo coinvolge, una bolla fatta di bus perduti pasticche e capufficio, che è trasparente perché non ce ne accorgiamo ci stia intorno, ma poi la notte non si dorme e mischiamo affanni e valeriane. Il suo teatro gestuale si rapporta alla parola non per didascalia ma per complementarità e per questo è interessante, lo fa attraverso la ripetizione che accresce e conduce via via nell’evoluzione dell’esaurimento nervoso, ed è una degradazione fisica e psicologica dell’umano senza rimedio, con una inevitabile conclusione tragica, fino a sgonfiarsi, la bolla, per sfinimento. In sala comincia poco dopo, l’Anima del Triangolo Scaleno per regia di Roberta Nicolai, loro che questo festival l’hanno inventato e lo tengono su, trovano modo anche di prendersi il palco, per una sera. Dello spettacolo scrissi già poco tempo fa, al suo debutto al Furio Camillo (leggi la recensione su TeatroTeatro.it), quanto non mi trovasse né emotivamente né concettualmente vicino: mi trovai disperso in sala a vivere un distanza dalla scena troppo forte: non c’è drammaturgia, dissi, in un confuso annebbiamento collettivo, come se tutto avvenisse senza un motivo preciso, così, per dispersione; dietro lo spettacolo c’è l’Anima buona del Sezuan di Brecht, testo già difficile di cui riportano un sentimento che, tuttavia, dell’anima è la parte esteriore, il contorno e non il cuore. Gabbato lo santo, infine: gli Omini al lotto nove (che detto così fa ridere…). In un cortile enorme che fa piazza di paese, senza scenografia né costruzioni, i quattro fanno consegnare all’entrata un numero che servirà per lo spettacolo, e inizia lì l’interazione con la platea che diverrà debordante. Sui primi applausi un cagnetto in seconda fila, arrabbiato tre volte la stazza che porta, tributa loro la sua disapprovazione, ma riesce a fare poco e si stupisce pure che sia tra i pochi a non divertirsi: questi Omini lasciano il ludibrio del proprio corpo in scena, non mentono, lo tengono lì senza preservarlo in alcun modo, e questa mi pare la loro verità indistinguibile; questo loro lavoro dissacrante ed eccessivo sulla destrutturazione linguistica e concettuale sa trascinare come pochi spettacoli perché è organico, figlio della loro intima secrezione salivale: forse posso star qui a dire che manca una drammaturgia completa, che forse un venti minuti verso la fine sono di troppo, ma un biondino che non avrà sei anni, con il naso da Peter Pan e i capelli alla moda a cadere spettinati sulle spalle, non si cura molto di altro: ride incantato anche senza capire molto delle tendenze pontificie o del velenoso sarcasmo pistoiese.

E pure questo sesto giorno è finito. Penso che domani è il settimo, che pure l’essere perfettissimo e supremo, quel giorno ha sentito che s’era stancato pure lui, e s’è riposato. Noi no, noi restiamo qua perché c’è ancora tanto da vedere, ancora tanto da discutere e farci pervadere da quella passione che ci portiamo da casa. Che poi l’appetito, si sa, viene mangiando. Così con alcuni abbiamo pensato che non può finire domenica, che noi mercoledì ce ne andiamo in gruppo a vedere Danio Manfredini a Terni. Che cambiano i componenti, ma questa resta sempre una bella famiglia. Stasera tocca ai passi sulla luna di Andrea Cosentino, per esempio lui almeno un seminario con Danio Manfredini, qualche anno fa, l’ha fatto pure lui.

Simone Nebbia

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