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E al settimo giorno, Teatri di Vetro non si riposa: meno uno all’alba

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Potere di certi incontri. Oggi arrivo un po’ prima che devo trovare il teatro 15 dove fanno i Sineglossa, così passeggio dopo aver chiesto nel foyer mi avvio lungo la salitella che porta in alto, sul promontorio di Garbatella che nessuno sa essere un luogo d’altura: curioso un quartiere cresciuto in altezza che l’edilizia ha sviluppato con palazzetti giardino, mentre lo sviluppo cementizio del resto della città è in altezza, sì, ma seguendo un altro progetto di assembramento strutturale. Case come celle d’alveare. A metà strada incontro due giovanetti con la reflex ultima generazione che fanno fotografie ai murales, mi chiedono se ce ne sono altri, io penso che per chiedermi questo non hanno mai visto il quartiere, così li porto nei lotti, gli dico fotografate qua che un borgo dentro la città quando lo vedete. La vista gli incanta l’obiettivo, li perdo mentre si perdono loro, dentro cunicoli e vicoletti. Perché l’arte di strada, penso, che cercavano contemporanea, a volte è appena sotto due persiane tenute da uno spago, mezze graffiate sull’intonaco verde. Così s’è aperto, per me, il settimo giorno di Teatri di Vetro.

Prima di arrivare dietro la chiesa dove è previsto lo spettacolo, sono io a scoprire la meraviglia della piazza con gli archi, mi chiedo dove sono e perché non m’ero accorto mai di questo scorcio, e va bene, c’è sempre tanto da imparare. L’Eresia dei Sineglossa è alla fine di un piccolo labirinto interno al teatro, in una saletta in fondo, dove si fa la sperimentazione. È previsto uno studio, il primo, di diciotto minuti su Giovanna D’Arco. Penso non sia molto per valutare, poi invece m’accorgo che ho da dire più qui che su lavori lunghissimi e senza spessore, perché qui lo spessore c’è, una qualità stilistica d’eccezione e una eleganza che si ha innata, il tocco, la pennellata. È un lavoro visivo, cui però non manca la cura della parola, che Federico Bomba regista sente come densa di significato; il dato più interessante è che, nel gioco di luce e buio cifra di una certa area di ricerca, qui ogni cosa ha la sua intensità semantica: le parole hanno un impatto sull’entrata in scena determinante, concedendo già molto alla misura che dovremmo tenere per seguire lo spettacolo, la temperatura – intendo – è già a un certo grado, così che ogni cosa passa l’arco della percezione con assoluta fluidità; è qui che, senza concedere alla moda fin troppo riconoscibile di qualche loro collega, i Sineglossa usano anche la luce non come elemento soltanto estetico ma a fini drammaturgici, concedendo apparenze d’appigli cui afferrarsi alla giovane d’Orleans, così come la crescita di tono che precede la scritta infuocata col suo nome non eccede nel ritmo e nella forza dirompente, pratica abusata che troppo spesso tradisce invece una incapacità di controllo della materia, nonché una incertezza dei propri mezzi pre-tecnici. Rinfrancato me ne torno in sala per la Compagnia Andrea Saggiomo, che presenta i suoi Fiori d’arancio. I primi minuti sono stimolanti, la ricerca visiva sviluppa un qualche interesse che attendo sbocci, come i fiori del titolo. Invece col passare dei – pochi – minuti lo spettacolo si aggomitola su di sé, sulla propria mostra: uno schermo dove proiettare immagini, un testo denso, la fisicità della lotta, la musica dal vivo di un pianoforte, sono l’eccesso della stimolazione che si cerca attraverso più piani sensoriali, con il risultato di tradire una scarsità di fondo che non sembra appartenere a un’idea ben chiara degli obiettivi. Quando penso di scriverne, mi dico che in fondo saranno giovani e cresceranno, poi m’accorgo che Saggiomo ha debuttato nel 2000, che ha vinto Nuove Sensibilità 2007, ha vinto Cantieri Teatrali quest’anno e per questo è coprodotto da Fabbrica Europa e Pontedera Teatro. Allora proprio no, non posso esimermi. È un lavoro sciatto che pecca in complicità con chi ascolta, con una struttura cedevole e sensibilmente monocorde, inoltre con un impianto contestuale che cede al retorico (basti, per capirci, la lotta del ragazzo napoletano con Pulcinella, cui credo imputi lo scadimento della città…a Pulcinella…). Via da qui che inizia Tiziana Scrocca di TeatroViola, che presenta al lotto 14 Un’alba da qualche parte. Vado anche perché quel lotto riserva sempre grosse sorprese, e infatti appena arrivati m’accorgo che il cortile della narrazione e del bel canto evocativo questa sera se la batte con la finale di Champions League, al fascino di cui qualcuno di noi stasera ha ceduto: si trasmette per una finestra aperta a dimostrare la mondovisione da un cucinotto di due metri, il teatro raccolto invece in un cortile strapieno. Potere del paradosso. La narrazione pura, che racconta l’emigrazione in America, si interseca al canto segreto di voci raccolte, in cui vibra un sentimento d’estraneità che lega la lingua d’appartenenza alla terra straniera in cui si arriva. Fin da subito ho la sensazione che questa storia l’ho già sentita, mi capita sempre più spesso con i racconti dialettali pure corretti e affascinanti, ma del tutto non performativi e un po’ statici, vedo fra il pubblico Alessia Berardi, attrice cui vidi fare, un paio di anni fa, Ballare di lavoro con Veronica Cruciani. Ecco, questa storia, dove m’era parso di averla già sentita. Sul palco ora, tra pochi minuti l’evento della settimana: Andrea Cosentino ripete davanti ai miei occhi per la mia undicesima replica (forse tante quante ne ha fatte lui…) dei Primi passi sulla luna. Per approfondimento qualcuno su queste parole avrà appena allegato recensioni già esplicative (leggi la recensione), io ne dico soltanto che mi trovo di fronte al più bel debutto in terra romana della stagione 2009-2010: uno spettacolo denso, poetico, trascinante, per un’ora e quaranta attraverso tutte le possibilità sensoriali ed esco appagato; la domanda che mi pongo è, tuttavia: per quale motivo questo signore, questo “putto di 42 anni” è costretto a fare i suoi lavori per strada, nei centri sociali, nei piccoli teatri a pagamento? Non è forse arrivato il momento di una produzione seria e solida? Prego Teatro di Roma, Romaeuropafestival e affini di riflettere, e molto.

Meno uno all’alba. Che poi l’alba è un atto violento, la notte mite e tutta scura a qualcuno fa paura, ma vista per quella che è, così statica, sembra dormire anche lei e non può far male. Mentre l’alba è un colpo di sole, che acceca e per di più illude. Irrompe, l’alba, ad indagarci che giornata avremo. L’ultimo giorno che ci aspetta vivrà quest’alba, dove molti – per fine – avrebbero detto tramonto. E in questa violenza assolata bisogna stare attenti, i teatri di vetro sono fragili assai, ma rompere non è sempre un male, così penso all’uovo di cioccolata, ridotto in mille pezzi, ma con la sorpresa dentro. Chissà non ci spetti proprio l’ultimo giorno.

Simone Nebbia

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