Nella varietà delle proposte teatrali romane, cercando di dare spazio alla moltitudine delle drammaturgie che compongono il panorama performativo contemporaneo, sono andato al Teatro Italia per assistere a Un gioco senza conseguenze, terzo spettacolo in cartellone dopo The Kitchen e Nemico di classe proposto dalla compagnia fondata da Massimo Chiesa (che gli eventi li sa produrre e promuovere, caratteristica determinante e non sempre valorizzata); e così, spinto dal successo, messo in bella mostra in fase di promozione appunto, ottenuto all’ultimo Festival di Spoleto e dalla positiva esperienza avuta con il precedente Nemico di Classe mi sono trovato seduto per la seconda volta nella platea di quello storico edificio che fu del dopo lavoro ferroviario (dotato di un’acustica incomprensibilmente inadeguata) cosciente di trovarmi sì di fronte a un intrattenimento leggero, ma anche a una commedia francese vincitrice di 5 ambiti Premi Moliére. Pretendevo troppo dunque nell’aspettarmi qualcosa che colpisse nella risata, ma anche nel cuore e nell’intelletto?
Purtroppo invece quello che ci viene dato in pasto nell’ora e mezzo di spettacolo (o forse più, non ricordo, comunque troppo) è di una banalità sorprendente e forse bisognerebbe dirlo a chiare lettere: basta con le commedie dove si racconta la crisi della coppia borghese! D’accordo, la coppia è in crisi, ma lo è sempre stata, perché scriverci una pièce (e questa mia domanda va agli autori Jean Dell e Gerald Sibleyras) che non aggiunge niente al festival delle superficialità già dette e alla sociologia da quattro soldi ospite in ogni talk show che si rispetti?
Certo gli attori (Luca Avagliano, Ilaria Falini, Daniele Parisi, Daria D’Aloia, Diego Venditti) non hanno colpa anzi sono bravissimi e cercano di costruire i propri ruoli in modo accurato, cadendo di tanto in tanto nella superficialità macchiettistica, ma senza avere scelta, perché è il testo ad essere di una superficialità inquietante. La trama è presto detta e svelata: una giovane coppia (Bruno e Chiara), sulla trentina, è già in crisi perché i due si sono conosciuti troppo presto – più si va avanti e più i tempi della crisi borghese si affrettano, tra un paio d’anni cinema e teatro la racconteranno tra i quindicenni probabilmente. Ciò che mette in moto il terremoto è l’affermazione di Patrizio, il cugino di Bruno, che li paragona alla famiglia perfetta protagonista di una pubblicità sulle biscottate, i due allora fingono di essersi lasciati e diffondono la notizia in un party organizzato per la vendita di una vecchia casa di famiglia, questo accende la miccia di una serie di situazioni da vaudeville viste in qualunque salsa e ravvivate solo dalla bravura degli attori. La regia di Eleonora D’Urso inoltre non fa nulla per creare un minimo di tensione verso il finale, per cercare almeno di mischiare le carte in tavola, se non indugiare nell’idea, pessima in quanto didascalica, di utilizzare canzoni che rimandano ad atmosfere e contesti emotovi simili a quelli affrontati dai personaggi. Al pubblico tutto è svelato e l’unica cosa che desta un minimo di attenzione è relativa al finale: Chiara tornerà con Bruno oppure scapperà in motocicletta con un amico di infanzia del fidanzato ritornato per l’occasione dai suoi viaggi di lavoro norvegesi? Come vedete entrambe le possibilità nascondono un’originalità da lasciare il pubblico senza fiato
Andrea Pocosgnich
in scena
fino al 25 aprile
Teatro Italia
Roma
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