Aiace. Il nome dell’eroe. Per le rive dell’impero acheo il suo viaggio, simbolo di un destino che si fa sull’uomo, sul suo divenire e infine, morire. Aiace è paradigma della resistenza asfittica e pur necessaria dell’uomo al destino. Prima di lui le armi di Achille, passate alle spalle di Ulisse, il trasformista e più adatto al mutare degli eventi. Per Aiace no, gli eventi non mutano. Non muta egli stesso. Dario De Luca di Scena Verticale porta Aiace nella sua terra, nel sud dove il potere delle Parche che governano i destini ben si specchia nel potere criminale, familiare, inaccessibile. Il suo ‘U Tingiutu. Aiace di Calabria è uno spettacolo straordinario che sa dire, di questa terra, i mali e la sorte. Il rapporto del sud con la morte ha legami forti con la tragedia sofoclea: l’inarrestabile che vi sottace, l’umanità sopita dietro la ripetizione dell’ingranaggio, dietro la meccanicità dell’azione, tutto questo sconfigge Aiace: la sua indipendenza da un sodalizio basato sui legami, sul concetto di banda, di clan, sulla droga che corrompe, esplicitamente consumata sul marmo dei cadaveri, non può avere alcuna rilevanza. Aiace è fin dal principio ‘u tingiutu, l’uomo morto che cammina.
Uno degli elementi più forti è la coralità linguistica che fa da sponda a una drammaturgia asciutta, lineare, che non esce mai dagli argini protettivi ma, proprio grazie alla solidità linguistica, non difetta mai di attrazione. Il coro di una lingua che è musica – dato che ho più volte evidenziato nel caso di questo gruppo calabrese – è un rito nel rito della morte, un doppio filo che aumenta la percezione della fatalità. L’asettica estraneità mentale dell’azione è la chiave di questo spettacolo: la morte in primo piano, sullo sfondo la confusione degli uomini, distratti dal loro incontenibile declino. L’evoluzione di questo naufragio è come un percorso a ritroso, dal letto freddo di un’anticamera mortuaria, fino a ricostruire la sequenzialità inappellabile della morte. Decisamente rilevante per la coralità è anche la forma di attori straordinari – oltre a De Luca, Rosario Mastrota, Ernesto Orrico, Fabio Pellicori, Marco Silani – e l’uso della luce e delle musiche, così come del velo-sipario, in funzione di atmosfere tese e mai vacillanti.
La prima parte dello spettacolo è in luce, la seconda è velata perché chiara è la morte, oscuri i percorsi che vi conducono. La struttura è di una precisione secca e coerente alla tragedia; l’inizio illude: tre quadri iniziali, in mezzo la morte adulta, a sinistra la morte infantile, a destra gli strumenti con cui si affrontano entrambe, nella frivolezza di un alberello di natale dorato e una radio che trasmette canzonette popolari. Poi tutto muta e si fa prologo, gli eventi spingono dentro la vita di una famiglia criminale: ecco allora il nodo drammaturgico più forte, il passaggio di stato è percepito come inevitabile, legato a una deriva: è qui che la tragedia mostra la sua asciutta specularità al testo sofocleo, la sua dipendenza da sé stessa, giro vuoto di altre esperienze, che ne riconosce una soltanto, per sé vitale, e insieme mortale.
Simone Nebbia
visto al Teatro Palladium
Roma
Prossime date:
1 e 2 aprile 2010
Teatro Sybaris – Castrovillari (CS)