Se qualcosa di Grotowski ci rimane, indelebilmente a sintesi di un immenso lavoro sulla teoria e pratica del teatro, oltre all’indiscutibile studio sull’attore, quest’essenza potrebbe essere proprio nell’incapacità del medium teatrale di competere con il cinema e la televisione. In questo senso per Grotowski, e naturalmente è ciò che vale per tutti gli assertori di un teatro artistico, la pratica scenica deve trovare una propria autenticità in un linguaggio altro, che non ricalchi i “modi” di media onnivori e campioni di realismo.
È questo uno dei problemi che subito saltano agli occhi vedendo uno spettacolo come Killer Joe, in scena al Teatro Vascello fino al 25 aprile; sia chiaro: il pubblico non manca, nella replica alla quale ho potuto assistere si sfiorava il sold-out, ma non può essere solo questo il metro di giudizio, sarebbe troppo facile.
Il testo del Premio Pulitzer 2008, Tracy Letts, è una drammaturgia che racconta dove possono portare povertà, sofferenza e criminalità quando raggiungono una parabola tale da riempire la vita umana. Dunque anche qualora lo mettesse in scena Quentin Tarantino, ne rimarrebbe un profondo senso di tristezza, uno stupore di fronte a scelte che potrebbero apparire disumane: come quella che porta Christian (il protagonista interpretato da Alessandro Marverti) e suo padre Anselmo (Andrea Ricciardi) a svendere la sorella di Christian, Doroty (Patrizia Ciabatta) ancora vergine, al famigerato Killer Joe – un Francesco Montanari più simile a Robocop che a un poliziotto nostrano – come caparra per le sue prestazioni. Killer Joe viene così ingaggiato per uccidere la madre di Christian titolare di una polizza sulla vita. Bisognerebbe allora chiedersi perchè nello spettacolo diretto da Massimiliano Farau il pubblico ride anche in quei momenti dove invece dovrebbe pensare o afferrare un sentimento di tragica sofferenza. E non parlo di humor nero, ma di un continuo rincorrersi di battute che non lasciano spazio ad altri sentimenti.
Mi spiego meglio: lo spettacolo in scena al Vascello si muove su due opposte traiettorie quella del realismo, evidente nella ricostruzione della fatiscente abitazione di Anselmo, pannelli in alluminio dove appaiono scritte inneggianti a Totti alla sua Roma, cucina usurata e sporca al punto giusto, divano rosso, collezione di birre in terra, televisore e radio all’occorrenza funzionanti e recitazione da vero romano di periferia (quella cadenza insomma non più legata a un’appartenenza sociale, ma a una invincibile pigrizia culturale), dettagli impeccabili nella loro riproduzione, niente da dire insomma; l’altra traiettoria è quella fumettistica, quella che potrebbe avvicinarci al già citato Tarantino, quella capace di far scaturire la risata anche dalla tragedia, una modalità insomma che usa il reale solo come trampolino e nella sua deformazione trova la sintesi metaforica del discorso artistico. Ma come accade nella maggior parte delle produzioni seriali televisive anche questa cerca di stare con i piedi puntati per terra: si sdrammatizza la sofferenza con gag e battute da sit-commedy e si finge a più non posso. Finge Francesco Montanari nell’interpretare un personaggio che dovrebbe risultare paradossale e invece si smaschera sin dall’inizio, finge la regia nell’inseguire ritmi da commedia americana per poi ritrovarsi intrappolata in cliché televisivi, finge la scrittura drammaturgica, in questo caso l’adattamento, sempre pronta a compiacere il pubblico per l’ansiaa di non far ridere, nella paura che un angolo di tragedia possa annoiare.
Eppure c’è un momento, un attimo definitivo che poteva trasformarsi in poesia, poco prima del finale splatter, nel quale pestaggi e uccisioni sporcano il palco di sangue, è un momento in cui tutta la nuova famiglia è a tavola, e il poliziotto-killer brinda proprio all’unione familiare, mentre dalla radio un popolare canto religioso gonfia l’aria di tragicomica sofferenza e il concetto di famiglia è distrutto e ricostruito sotto il segno del male, in quel preciso momento anche lo spettatore più distratto avrebbe percepito quell’utile senso del tragico se non fosse arrivata la solita e scontata battuta a riportarci alla nostra triste realtà da tubo catodico.
Andrea Pocosgnich
in scena
fino al 25 aprile 2010
Teatro Vascello [vai al programma 2009/2010 del Teatro Vascello]
Roma
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Roma. 7 – 19 dicembre 2010 Teatro dell’Angelo
Roma, 15 – 16 marzo 2011 Teatro Biblioteca Quarticciolo [val al programma]
Roma, 17 – 19 marzo 2011 Teatro Tor Bella Monaca [Vai al programma]
Non ho visto lo spettacolo ma voglio fare comunque un complimento alla recensione. In un tempo in cui una critica negativa (a meno che non sia di Quadri o di Palazzi) è vietata, perché non porta pubblico, una bella critica, negativa ma argomentata da sensazioni, percezioni e riferimenti a maestri della ricerca, è un piacere alla lettura.
condivido in pieno ciò che la critica ha appena scritto.uno spettacolo bugiardo… spavaldo… una presa in giro più che un dramma una risata idiota più che uno humor nero…uno spettacolo che non lascia ne dolore ne felicità non lascia pensare…. non si sofferma sul dolore e sulla tragedia che un essere umano può arrivare a fare uccidendo la madre… anzi ci fa ridere su di essa… e penso sia la più egoista e idiota libertà artistica che il regista si possa prendere. vorrei semplicemente dir e che il pubblico non è scemo e voi con questo spettacolo ci avete preso in giro…
non mi è arrivato niente, se non la voglia di evitare qualsiasi e qualsiasi approccio vagamente profondo. superificiale fino alla noia. lontano dalla realtà, ai limiti del paradossale: è evidente che chi l’ha portato in scena vive in mondo di fate e balocchi, non va oltre sè stesso e verosimilmente – complice un pubblico compiacente ai limiti del prezzolato – si bea del proprio prodotto. la deriva delle emozioni, emblema del disimpegno affettivo e dell’andare oltre, in profondità.
ho avuto la sensazione di aver perso tempo e che sarebbe stato meglio guardare la pioggia scendere e respirare l’aria fresca di monteverde.
anch’io non ho visto lo spettacolo ma ho apprezzato la recensione. Il teatro deve parlare un altro linguaggio e non compiacere o compiacersi. Hamlet docet.