Stamattina mentre correvo, una vecchietta nelle strade attorno al mercato del sabato, se ne camminava e in mano aveva un cono gelato che le copriva tutta la faccia; ho pensato brava! Voleva il suo gelato e c’era il sole, così se l’è preso e pure bello grosso, alla faccia di minestrine e pasti solitari in semibuio, davanti al Tg1. Procedeva con il gusto in una doppia direzione: a volte leccando a piccoli colpi, un gusto soltanto del suo mastodontico dolce, altre passando a mescolarli nella bocca, per un gusto soltanto ma pieno, che fosse simbolo di quella scultura così densa. Ho pensato che in fondo la percezione dell’arte è anche questa, si sceglie se cogliere i gusti uno per volta o tutti insieme, e vedere l’effetto che fa.
Vertigine. Atto secondo. La varietà dei linguaggi. Uno dei temi fondanti di questo festival si va definendo proprio questo: l’allargamento non solo teorico ai più profondi margini dell’espressività. La seconda giornata di Vertigine ha aperto, agli occhi di tutti, proprio il suo cardine ed elemento costitutivo. Come in una gelateria l’Auditorium ha servito gusti di vario genere e colore: hanno aperto i Menoventi, Consuelo Battiston, Alessandro Miele e Gianni Farina, gruppo fondato nel 2005; con il loro InvisibilMente hanno indagato le intenzioni del linguaggio, la sua perfezione quando dice, la confusione di quando contraddice: eppure è lo stesso, magari le stesse parole; e poi insieme è un esame preciso del controllo che subisce, quando la presenza di un potere eccedente sembra addirittura leggere il pensiero. La loro ricerca sulla percezione, sulla diversità dell’impatto che portano anche nel nome, è integrata in questo spettacolo con meno forza delle attese, ma convincente.
A seguire Teatrialchemici, da Palermo, al secolo Luigi Di Gangi e Ugo Giacomazzi, con la loro Desideranza vivono un interno intimo, scardinando noi con una drammaturgia efficace, la cui sintassi si deve alla lingua siciliana e ad una tradizione teatrale di grande pregio; due fratelli, Pino e Sergio, due grandi interpretazioni rendono l’evocazione di un sentimento ammalato dalla vita stessa, perché non si nasce distruggendo, distruttori si diventa quando già si è distrutti. Poi è la volta del Gruppo Nanou, ensemble composito che predilige linguaggi che legano la danza e l’arte concettuale, Marco Valerio Amico e Rhuena Bracci propongono un lavoro molto più teatrale dei precedenti, dal titolo Motel; sono quadri, che hanno qualcosa di hopperiano piuttosto evidente, nelle atmosfere e nella rivelazione sensoriale, la cui efficacia è tutta legata al mutismo e alla ricerca sulla solitudine, quel che non si vede è quel che c’è, l’indagine si fortifica di un’ottima cura stilistica nel movimento e nella simmetria; un piccolo difetto la totale comprensione che sfuggirebbe, io credo, a un pubblico meno allenato al contemporaneo, ma questa è storia che merita altro approfondimento. Chiude la serata – e la mi rimostranza all’impossibile orario sia misura del suo valore – Tumore. Uno spettacolo desolato di Lucia Calamaro, una delle drammaturgie più complesse e vigorose degli ultimi tanti anni: la sua forza è in una verità incondizionata, è riuscita la Calamaro a portare in scena voci dell’irrappresentabile, con una scarsità di ammiccamenti da cogliere impreparati a un simile impatto, lasciando nelle mani di Monika Mariotti e Benedetta Cesqui, maestose in scena, una materia esplosiva, viva e vera; una morte, un dolore efferato e improvviso a saperne l’imminenza, un dolore reiterato nella deriva di corpo che persona, forse, non è più, un dolore stagnante e corrosivo che ne viene, quando tutto è soltanto, silenzio.
Un kebab e un bicchiere di rosso, alla fine di tutto. Con due colleghi più avvezzi di me alla lunga gittata. Con un ritmo estivo da quattro spettacoli al giorno che, di questi tempi, ancora non ho preso. Uno dei due ci interroga del suo programma in radio, mi dice: “mi chiedo sempre se chi ascolta sta attento o lava i piatti…” e ha ragione, la confusione genera percezioni alterate, cui dobbiamo fare profonda resistenza. Mi chiede se voglio qualcos’altro, lui coraggioso mangerebbe ancora. Io declino. Una cosa per volta, mi dico. Il mio stomaco non condivide la varietà. Ma la mia mente, quella, non conosce pesantezze.
Simone Nebbia
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