Se qualcuno provasse ad analizzare questo lavoro de Gli Omini a posteriori, in maniera distaccata come avviene per la maggior parte delle recensioni, ne risulterebbe uno sforzo critico parziale e in ogni caso superficiale. Non basterebbe ad esempio raccontare il primo monologo di Riccardo Goretti nel quale descrive la divisione in zone di Tor Bella Monaca, le famose “R”. Sul palco il nastro isolante disegna la geografia, Luca Zacchini mi aveva rivelato che il nastro lo volevano fosforescente «dovevamo comprarlo insieme, ma poi l’abbiamo dimenticato».
E allora facciamo un salto indietro, all’origine di questo progetto socio-umanistico chiamato Tappa. Ho passato una giornata con i quattro artisti toscani e una delle prime cose che ho capito è relativa alla funzione sociale del lavoro: Tappa è prima un progetto socio-umanistico e poi in un secondo momento diventa uno spettacolo.
Luca Zacchini, barba lunga e capelli neri, spessi occhiali da vista che in scena non usa, in CRisiKo! per capirci è quello ingenuo pronto in un attimo a trasformare la sua ingenuità in follia, mi viene a prendere a mezzo giorno, al telefono ammette che la sera prima hanno fatto le 4 di mattina per sbobbinare le interviste e iniziare a buttar giù i testi. Riccardo poi mi avvertirà che di farina del loro sacco non c’è mai nulla in Tappa, si “limitano” a portare in scena le parole della gente.
Al telefono mentre Zacchini sorseggia il caffè mi spiega che stanno cercando delle macchinine radiocomandate della polizia e allora una volta salito sulla Dacia Logan rossa degli Omini gli indico il negozio di giocattoli più vicino. Ripercorriamo la via Casilina in direzione fuori Roma, mi racconta le prime impressioni che hanno avuto: la paura con cui erano partiti da casa, lo sguardo ammonitore della gente che qui li vede come stranieri, gente che vede facce diverse, facce capaci di fermarti per strada ed intervistarti, chiederti un parere. Lo porto in un grande negozio di giocattoli di quelli da perdercisi dentro, a pensarci bene questa è un’altra caratteristica fondamentale di ormai tutte le zone periferiche di Roma, ovvero l’immancabile presenza di numerose strutture commerciali che vanno a riempire la mancanza di altre proposte più legate a un intrattenimento culturale, mi torna in mente il monologo recitato da Francesca Sarteanesi dove una delle ragazze intervistate esprimeva tutta la sua noia nel non avere altro da fare se non passare del tempo nel centro commerciale dove almeno rispetto al cinema non paghi l’entrata, così succede anche per l’autobus, ci si va per passare il tempo e se qualcuno ti guarda male può finire in rissa. Con ingenuità, in maniera candida probabilmente questa ragazza ha raccontato le sue esperienze al microfono degli Omini e con la stessa semplicità quel momento rinasce artisticamente sul palco del Teatro Tor Bella Monaca.
“Questa è gente che da quando nasce sta con le spalle al muro” afferma Goretti appena arrivati nella casa che li ospita a Torre Gaia, zona a poche centinaia di metri da Tor Bella Monaca (in un consorzio con tanto di cancello e sicurezza privata). D’altronde macchine dei carabinieri in giro non se ne vedono mai, quelle della polizia sì invece, ma anche loro pattugliano senza fermarsi troppo e anche loro non osano entrare dentro R5, il settore peggiore. E allora Luca mi chiarisce a cosa servono le macchine della polizia, quella radiocomandata deve proprio fermarsi per un attimo di fronte a un corpo disteso in terra e poi ripartire, metafora insomma dell’assenza dello stato che subito dopo si trasforma in utopia anarchica con la distruzione delle stesse macchinine schiacciate sul palco.
Per capire la genesi di Tappa bisogna comprendere il metodo utilizzato da questi “teatranti antropologi”: il lavoro sul territorio finalizzato ad intervistare (anche in video) gli abitanti del luogo, la promozione sempre sul territorio dello spettacolo, punto determinante nei piani originari del Teatro di Roma; se non fosse che poi alla fine, nel bisogno reale, sarà anche per il sisma provocato dall’abbandono della Marinelli, l’istituzione si è tirata indietro rendendo tutto più complicato, non permettendo ad esempio a Gli Omini di far salire altre persone sul palco e lasciandoli soli dal punto di vista della promozione sul territorio. Questi due momenti precedono la pratica di scrittura dei testi desunti dalle interviste e il momento drammaturgico finale dove inizia a prendere corpo una scrittura scenica vera e propria.
Nella giornata che ho passato con Gli Omini ho osservato la passione con cui trattavano il materiale ottenuto, ho ascoltato le prime letture, assaporato i silenzi mentre erano tutti immobili difronte ai propri pc portatili, ognuno a trovare le fila di ciò che poteva prendere il volo e trasformarsi da una semplice intervista a un pezzo da interpretare e sul quale porsi tutte le domande del caso: dove taglio? È troppo lungo? È banale? Come andava con l’accento romano? Poi sempre nel silenzio di un dopopranzo dilatato ad amaro e grappa, le risatine, di quel piacere che si ha rileggendo una cosa che funziona. Arte e organizzazione vanno di pari passo: bisogna andare in teatro, parlare col tecnico, bisogna andare a prendere il “capo”, Francesco Rotelli, in stazione…
È lui che tiene le briglie de Gli Omini, ed è lui che comincia lo spettacolo; mentre gli spettatori prendono posto, inizia a guardarli, tutti, uno dopo l’altro, con fare di sfida, finché qualcuno dal pubblico gli fa “vai avanti coglione”, per un attimo c’è il gelo, gli crediamo totalmente, poi capiamo che è Luca Zacchini a provocare la rissa, i due si accasciano sul palco dando inizio allo spettacolo.
Luca mi aveva già già parlato in auto dell’idea legata al personaggio del profeta, ovvero il misterioso autore delle scritte apocalittiche che negli ultimi anni sono apparse per tutta la lunghezza di via Casilina proprio da Tor Bella Monaca fino quasi ad arrivare nei territori che precedono la Stazione Termini. E quelle scritte mi avevano sempre affascinato, soprattutto quando erano iniziate ad apparire costantemente. Prese nel loro insieme evidenziano una filosofia ben precisa, il racconto di un folle certo che incolpa “i negri, le mignotte” e le donne “che il cazzo gli ha dato alla testa”, che profetizza una fine del mondo, ma anche un evidente accumulo di ciò che la nostra società in parte è destinata a diventare, ovvero un’umanità chiusa deformata su sé stessa e piena di paranoie xenofobe ed omofobe. Quando Zacchini entra in scena con un’interpretazione a metà tra l’ironico distacco e la totale immedesimazione non riesco a trattenere le risate, e pure il pubblico ride appena riconosce che quelle sono proprio le frasi stampate per tutti i muri della via Casilina.
È sempre in quel pomeriggio di osservazione che ho ascoltato per la prima volta ciò che poi sarebbe stato identificato come la preghiera di Tor Bella Monaca, ovvero un testo recitato a più voci con tutti i luoghi comuni ascoltati dagli abitanti del quartiere, le cose che maggiormente si ripetevano, quelle che nella loro iterazione già erano una specie di preghiera. È la litania del “quartiere come un altro”, certo ci si picchia, si fa a botte, “mio fratello spaccia”, “mio cugino sta al gabbio!”, però è un quartiere come un altro. Mi spiegano che questa preghiera la reciteranno tutti e quattro insieme con un coro di risposta formato dai ragazzi del liceo Amaldi è lì che poi andremo. Quando durante lo spettacolo i ragazzi si sono alzati tutti insieme dalla platea, un brivido, la mia mente forzatamente è tornata a quel primo emozionante ascolto e ho capito, o forse percepito, il grande ed estenuante lavoro fatto dai quattro giovani artisti toscani e l’emozione degli altri giovani, quelli che con le proprie confidenze hanno contribuito alla creazione, quelli che li hanno portati in giro per il quartiere, quelli che hanno arricchito lo spettacolo con un momento di rap da quartiere, quelli che si sono fermati a ringraziarli, quelli che forse grazie agli Omini torneranno a teatro e quelli che non ci torneranno più perché, nonostante la Giornata Mondiale del Teatro sbandierata da Letta e Napolitano, all’Amaldi non ci sono i soldi per continuare il laboratorio e allora quest’anno sarà l’ultimo, ma in fondo è un quartiere come un altro.
Andrea Pocosgnich