Quando Ray Bradbury pensò di coronare la parabola nata con L’estate incantata cinquant’anni prima con un’altra Estate, cui dire Addio, aveva in cuore di costruire una storia legata alla lotta fra i giovani e i vecchi, per il controllo del grande orologio che regola il tempo degli umani. Il libro è bellissimo perché si serve di qualcosa che in Italia abbiamo dimenticato, ossia la qualità estrema dell’allegoria per la doratura dell’espressione, renderla cioè plausibile, vera. Questo valore si porta con sé lo splendido spettacolo di Fibre Parallele – Licia Lanera e Riccardo Spagnulo – dal titolo Furie de sanghe, in cui invece del tempo, si va a rubare un simbolico capitone.
Il titolo si ritrova a corredo di una emorragia cerebrale, ma in dialetto barese: tale è l’avvenimento, la forza esplosiva, tale è la penetrazione dell’emotività nella ragione: sangue che zampilla dal cervello. Un ronzio di fondo, una musica ancestrale che lega alla terra accompagna un coro polifonico, di altra melodia, più complessa, fatta dal vertiginoso incrocio linguistico in cui emerge lo straniamento per il disturbo, la disarmonia che provoca. Quando il codice si va calcificando nella famiglia di padre, madre, figlio e un capitone, ecco l’apparizione: Licia Lanera dentro un sacco di plastica, si libera e porta fuori la variabile, la nuora che sconvolge un equilibrio misero e pure funzionale, è apparizione incomprensibile e per questo violenta, determinante. Da quel momento tutto cambia e il passaggio di consegne si va attivando, l’allegoria mostra il suo obiettivo.
Gli stimoli sono numerosi e risiedono nell’incastro tra l’evoluzione e l’arcaismo in cui si incaglia l’umanità, la reiterazione rituale, la stasi eterna. L’uso del mezzo e della figuralità è davvero efficace: l’allevamento del capitone in famiglia è l’antico che si misura nei suoi elementi formali, la conquista del telecomando è il passaggio di consegne tribale, violento come una zuffa per la sopravvivenza fra capobranco, la figura del lupo nelle cui zanne risplende l’evoluzione coltivata nell’odore del sangue, l’uso del fermo immagine che innesca l’effetto statico delle azioni ripetute e conservative, la pioggia che non arriva e quindi il caldo afoso, placentare in cui sembra fermo un certo meridione, infine l’epilogo-monologo della nuora eroina tragica, l’inevitabile del suo percorso è la violenza rimossa del peccato pagano, già impresso nelle colpe oscure del passato, rivolto verso il pubblico al presente, nella luce a tutta sala.
L’ammiccamento della coppia giovane a fare come i vecchi (interpretati magistralmente da Sara Bevilacqua e Corrado Lagrasta) – sulle note di una sempreverde Pugni Chiusi, successo di Demetrio Stratos al tempo de I Ribelli negli anni Sessanta – è la chiave dello spettacolo: dicono le Fibre Parallele che ciò che si è, è figlio di qualcos’altro, che il salto delle epoche avviene in rapporto alle precedenti; così l’uso al contemporaneo del classico, dell’epica, è una vertigine da cortocircuito espressivo, come comprimere Modernismo e Tradizione, le due epoche del ciclo universale della Storia, a farle toccare e, infine, compromettere.
Simone Nebbia
visto il 14 marzo 2010
al Teatro Palladium, Roma