Il teatro può ancora essere strumento di conoscenza o addirittura di denuncia? Nell’epoca dell’immagine e delle informazioni scambiate in tempo reale sulla rete, qual’è allora il ruolo delle arti performative? Queste domande anche se retoriche celano risposte complesse alle quali dovrebbe essere pronto a rispondere un regista che ha intenzione di portare in scena “la realtà”. Interrogativi che siamo certi si sarà posto anche Giulio Stasi, regista di questo Crollo!, pièce scritta nel 2007 da Jean Tay e in scena fino al 20 dicembre al Teatro Sala Uno. Nel testo dell’autore di origine singaporiana è la realtà ad essere protagonista con la storia recente e più nera del sud est asiatico: ovvero la crisi monetaria del 1997.
Stasi ha avuto il coraggio di scegliere un testo difficile e nuovo, ma ha avuto anche l’onere di districare quella matassa di senso con cui abbiamo iniziato questo ragionamento: la realtà della crisi finanziaria che in breve tempo per quei paesi generò una vera e propria catastrofe umanitaria, la rivolta della folla nelle piazze di Jakarta, i feriti, i morti, la violenza del regime di Suharto in Indonesia, la pulizia etnica sulle ragazze e le donne di origine cinese, violentate e uccise; come rendere palpabile tutto questo in scena? Frammenti di singole storie, come quella di una studentessa, una delle tante vittime, che devono legarsi alle vicende della Storia nazionale, un paese piegato non solo dalla violenza di colui che il potere lo amministra, ma anche in forma più indiretta da chi quel paese lo tiene in pugno aprendo o chiudendo i cordoni della borsa. Dal testo di Jean Tay emergono anche i “giochi” del Fondo Monetario Internazionale, organismo che in questi casi ha sempre mostrato un’incapacità non solo di gestire la crisi, ma anche di essere neutrale, anzi favorendo nei momenti di shock (come li chiama Naomi Klein) politiche liberiste e riforme strutturali per svendere i malcapitati paesi al miglior offerente straniero.
La complessità della materia rischiava insomma di far rinunciare anche l’artista più coraggioso, così non è stato per Stasi, il quale lavora su diversi livelli e con diversi risultati sulla messa in scena. Riuscito è ad esempio il lavoro sul coro di broker, incarnano il male, ma in maniera buffonesca, sono un’astrazione, la loro è appunto una violenza invisibile, in una delle prime scene, ognuno sogna di cadere, cosa che più avanti succederà all’intero sistema nel quale vivono e lavorano. A questo trio di spietati broker da avanspettacolo (uno indossa degli stivali rossi da donna) che inneggia con slogan da cheerleader al Fmi o alla potenza del dollaro che li salverà, si oppongono e si mischiano le vite di una giornalista e della studentessa. È qui che lo spettacolo inizia a tentennare, appena il pathos comincia a muovere i suoi primi passi sulla scena, capiamo che quel meccanismo con il quale lo spettatore accetta la finzione della scena si rompe.
Sia la recitazione che la scansione del ritmo con cui la crudeltà del reale cerca di trovare un proprio spazio nel momento teatrale lasciano perplessi. L’uso del buio, specialmente quando non è punteggiatura linguistica, ma semplice avvertimento di un cambio di atmosfera o di scena, spezza proprio quel ritmo che dovrebbe far avvertire al pubblico il crollo di cui il testo parla, portandolo per mano difronte a quel corpo nudo che nella penombra (intensa qui l’immagine creata da Stasi) è l’uomo martoriato dall’uomo.
Se alla scansione delle scene aggiungiamo una recitazione che raramente nei momenti di pathos è capace, forse anche per inesperienza degli attori coinvolti, di afferrare lo stomaco dello spettatore come dovrebbe, ecco che la scossa promessa non arriva, il messaggio rimane in superficie e il pubblico si salva dallo tsunami emozionale al quale doveva andare incontro.
Andrea Pocosgnich
redazione@teatroecritica.net
in scena
fino al 20 dicembre 2009
Teatro Sala Uno
roma