Gli anni novanta. Mentre il mondo attorno andava scoprendo la distensione, la fine di un’era fredda come la guerra mai scoppiata e pure combattuta e così aspra, questo Paese si andava scontrando con la decimazione della fiducia nella politica, con un accentramento umorale del potere nel giustizialismo, scardinando l’idea, il pensiero dalla coscienza sociale, a promuovere invece un istintivo sentimento d’odio ed emarginazione. La Lega, allora solo lombarda, vinse la partita dello scontento popolare, fornendo il campo di battaglia per dare sfogo a questi ignobili sentimenti. In quella Lombardia inospitale andava crescendo il giovane Aram Kian, la sua carta d’identità italiana sconfessata dalla sua lontana origine iraniana. La gioventù di Aram a Synagosyty, luogo di soprusi e insieme di bellezze, la vita nascente di un uomo costretto a capire presto i termini di differenza fra gli uomini; il suo testo è la sua vita, la regia di Gabriele Vacis uno scrigno prezioso in cui contenerla.
Sinago Milanese, la concrezione dei sentimenti attorno ad Aram, la crescita di un odio indegno di una intera estesa regione del nord Italia. Aram Kian in scena è trascinante, sa creare immagini e un piccolo mondo davanti agli occhi di chi ascolta, e da fermo raggiunge ogni angolo del suo microcosmo: io cammino con lui nel freddo di Sinago, con lui vado a scuola, con gli amici, all’università, gli cammino accanto e non è pregio di molti saper tirare in una storia con tanta facilità. Il testo ha un ottimo ritmo, non lascia mai passare spifferi, in questo la regia di Vacis si conferma particolarmente sapiente nel gestire una narrazione, davvero il suo campo più consono. È poi uno spettacolo anche divertente, che lascia al sorriso un fondo amaro, e che non lesina in immagini e caratterizzazione.
Un paio di riflessioni, in ultimo: una straordinaria parentela, come già mi capitava di dire vedendo Libera nos, con i successi di Marco Paolini, addirittura personaggi identici, solo una lieve differenza di carattere linguistico, ma per il resto potrebbe esserne figlio. Aggiungo, dunque, un nuovo nome e nuove indagini da fare. La seconda è relativa a un tema assai in vista nel panorama culturale: quello che assiste il dibattito patria-antipatria, cui il testo di Aram Kian aggiunge un tassello importante a proposito della percezione della nostra tradizione culturale da parte della seconda generazione di immigrati. Forse questo dovrebbe insegnare molto ai governanti impauriti dalla mescolanza culturale e dare un esempio serio, importante al nostro post-colonialismo di matrice mestamente eurocentrica.
E, in ultimo, un ricordo della serata: l’applauso in sala scoppia prima di spegnere le luci. Giudice il pubblico, davvero un ottimo lavoro.
Simone Nebbia
Visto il 5 novembre 2009
Teatro Valle [vai al programma 2009/2010 del Teatro Valle]
Roma
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