Ci siamo lasciati alle spalle un altro Short Theatre, ieri sera (16 settembre) è terminata la 4° edizione della rassegna organizzata dall’Accademia degli Artefatti in collaborazione con il Teatro di Roma e Il Comune. Quest’anno la kermesse è durata solo tre giorni, ma il direttore aritistico Fabrizio Arcuri è riuscito a concentrare nel breve arco temporale a disposizione alcune tra le proposte più interessanti del nuovo teatro di ricerca italiano.
Erano numerosi gli spettatori ieri sera al Teatro India, e non vi erano solamente i soliti addetti ai lavori, non erano solo critici, artisti e direttori di teatri a fare la fila per assistere agli spettacoli della Generazione Scenario, anche tanti semplici appassionati si accalcavano per trovare un posto nell’ex-fabbrica della Mira Lanza. Tutti lì per assistere a un rito collettivo imperdibile dopo un’estate romana avara di nuove proposte culturali-performative. In una notte umida addolcita dalla musica suonata dal vivo, dall’atmosfera conviviale creata grazie al bar e al caffè-biblioteca presenti negli spazi aperti del teatro, quella massa eterogenea entrava in una sala per assistere ad uno spettacolo e poi discuterne, riderne, e poi ancora fare la fila per prendere posto in un’alta platea e così via fino a mezza notte inoltrata. In questa girandola delle arti sceniche si sono alternati, oltre a Imamama, Kinkaleri e Tony Clifon Circus, gli artisti del Premio Scenario. L’attesa era tutta per loro, la curiosità era palpabile.
Noi abbiamo avuto la possibilità di assistere allo spettacolo del gruppo Odemà, A tua immagine, e al vincitore del Premio Scenario 2009, Pink me and the roses, di Codice Ivan.
Cominciamo dai primi. Gli Odemà, Enrico Ballardini, Giulia D’Imperio, Davide Gorla, con un progetto drammaturgico di quest’ultimo e una regia collettiva, portano in scena A tua immagine. Nei 20 minuti, tipici degli spettacoli appena usciti dal concorso Scenario, incontriamo tre personaggi difficoltosi da far muovere e parlare per qualuque autore: Dio, Gesù suo figlio e il Diavolo. Ma attenzione, gli Odemà non costruiscono una drammaturgia costituita da un intreccio logico-narrativo, rimangono altresì in equilibrio sul filo del panflè ironico. I valori vengono capovolti: il Dio interpretato da Giulia D’Imperio non solo è Donna, ma è soprattutto un accumulo di arroganza e dispotismo, caratteristiche che si riflettono in una fisicità volutamente stravolta nel corpo e nella voce. Il Gesù di Davide Gorla è succube, incapace di opporsi ai piani di un Dio che ha come unico scopo quello di dominare l’umanità. In questo gioco di paradossi, il Diavolo, Enrico Ballardini, non mostra invece piani diabolici, veste quasi i panni del narratore, a lui il compito di accompagnare musicalmente lo spettacolo con chitarra e voce. L’ironia del testo e la dinamicità nella regia, interessante il lavoro fisico che non segue quasi mai la partitura testuale, ma si muove su una linea di scrittura visiva autonoma, su tutte ricordiamo soprattutto la scena in cui Dio canta con ritmi da musical le barbarie e le atrocità che gli uomini perpetreranno in suo nome, rendono i 20 minuti di spettacolo un nucleo su cui il giovane gruppo Odemà può continuare a lavorare per un progetto più ampio.
Di diverso respiro contenutistico ed estetico è invece Pink Me & The Roses. Sin dall’inizio capiamo di trovarci difronte a qualcosa, che almeno in questa versione, difficilmente troverebbe spazio in una stagione teatrale italiana. La sperimentazione di Codice Ivan, che a sentire gli applausi in sala (molto più tiepidi di quelli tributati a Odemà) e i commenti post spettacolo, ha lasciato più di qualche perplessità a una platea comunque pronta a tutto, rimane in bilico tra diversi territori artistici. Il teatro è solo uno di questi. In un’ atmosfera algida, di fronte a un telo bianco, assistiamo a frammentati momenti di performatività che dovrebbero avere come obiettivo quello di riflettere sulla creazione artistica stessa. Si strizza l’occhio a un certo tipo di arte visivo-performativa nord europea (non a caso Centrale Fies sempre molto attenta a questo tipo di sviluppi artistici si occupa della cura e promozione), una donna vestita di bianco seduta su una poltrona di velluto verde e legno bianco, Anna Destefanis, un ragazzo con pantaloni verdi e maglia gialla (neanche fosse uscito fuori da uno di quegli spot un po’ retrò di MTV), Benno Steinegger, balla e canta in playback, portando sul viso una maschera dai grandi occhi e poi il terzo, Leonardo Mazzi, probabilmente nei panni di se stesso, si fema in mezzo al palco, si sente il suo pensiero sull’opera che stanno creando e interpretando in quel momento, sposta la poltrona e l’attrice che vi è seduta con un muletto, fa partire luci e musiche da un tavolino con tanto di computer a vista. Un’opera in cui oggetti e attori hanno lo stesso peso specifico, movimenti, testi, colori e musiche agiscono sul medesimo piano comunicativo cercando con ironia di raccontare sé stessi. Uno spettacolo che, nonostante il coraggio di spostare l’analisi teatrale e performativa verso territori estetici lontani dalla scena contemporanea italiana, a parte alcune esperienze come From A to D and Back again di Tagliarini e Deflorin (affine per atmosfera, ma molto più compiuto a mio avviso), rimane comunque a rischio di implosione e non colpisce se non in rari momenti.
Concluso Short Theatre l’appuntamento è in questi giorni a Frammenti Teatro, presso lo spazio Zip di Frascati, e poi Es.Terni 2009, Le Vie dei Festival all’India e Revolution Mad al Quirino, un paio di settimane di festa per le alterità teatrali nostrane alle quali è concesso un periodo di libertà vigilata prima di tornare nei tuguri da dove sono scappate.
Andrea Pocosgnich
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