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Viaggio nel buco nero. Tre Sorelle di Muta Imago

In prima nazionale al Teatro India di Roma la nuova creazione di Muta Imago, dal testo di Anton Čechov, drammaturgia di Riccardo Fazi e regia di Claudia Sorace.

foto di Luigi Angelucci

Quando si fa storia, per convenzione il tempo viene suddiviso in secoli. Si tratta di una scansione simbolica, un’approssimazione funzionale utile a raccogliere in volumi narrazioni e commentari, a definire le ere e conseguenti competenze. Ma il mondo e i suoi abitanti non hanno mai fatto ruotare i propri cambiamenti epocali attorno al perno di una cifra. E però è vero che ricordiamo il passato e immaginiamo il futuro in base ai grandi accadimenti che hanno segnato uno e potrebbero segnare l’altro e questo vale per i fenomeni globali come per quelli intimi.
Le Tre Sorelle, Ol’ga, Maša e Irina, figlie di un militare morto l’anno precedente, mal sopportano la vita in provincia e attendono con ansia di tornare nella vivace Mosca. In casa con il fratello Andrej, poliedrico intellettuale col vizio del gioco, ricevono la visita – caotica ma galvanizzante – di una brigata di ufficiali e cadetti; si organizza una festa in maschera che non avverrà, divampa un incendio, i militari vengono trasferiti, tutto torna come prima, Mosca non vedrà più le tre sorelle.

foto di Luigi Angelucci

Se quanto a intreccio narrativo il penultimo dramma di Anton Čechov è forse il più complesso, la consueta nettezza della scrittura permette di osservarne con chiarezza le caratteristiche strutturali, in cui le microscopiche vicende interiori e il sistema di relazioni tra i personaggi diventano preda di un disegno autoritario, di una consecutio di accidenti che determina lo svolgersi dei fatti, il modificarsi delle condizioni su cui facevano pressione le aspettative e, infine, il disgregarsi dei desideri.

Il Teatro di Roma ha scelto sei repliche nella sala B del Teatro India per il debutto in prima nazionale delle Tre Sorelle di Muta Imago, una messinscena di livello europeo che invocherebbe un palco e una sala più grandi di cui, a giudicare dal netto sold-out, sarebbe stata in grado di onorare la capienza.
In scena, tre attrici (Federica Dordei, Monica Piseddu, Arianna Pozzoli) incarnano rispettivamente Ol’ga, Maša e Irina, ma la drammaturgia di Riccardo Fazi distribuisce su di loro anche le battute di tutti gli altri personaggi, tramutando le interpreti in una dolorosa cassa di risonanza per le lamentazioni di un’intera epoca.
La regia di Claudia Sorace programma spazio, movimento e luci come un cosmo fluido e quasi mai ospitale, nel quale i corpi danzano una isterica coreografia, in cui agonismo e agonia si confondono. Si perdono, vorticano, tentano di stabilizzarsi, tornano al caos, si scontrano, si respingono, si sciolgono al suolo, si annullano, risorgono. E quasi mai conservano quel poco di presa necessaria a creare quiete.

foto di Luigi Angelucci

Evidente è – come da sempre nelle opere di questo sorprendente duo artistico romano, di recente interessato anche al mezzo radiofonico – la ricerca minuziosa sulla dimensione sonora. L’utilizzo dei microfoni non desidera amplificare modulazioni vocali per consegnare verosimiglianza all’interpretazione delle emozioni, piuttosto sembra fornire all’ascolto gli strumenti per entrare quasi in competizione con il senso della vista. Anche grazie al tappeto / muro / palestra di note e graffi composti ed eseguiti dal vivo da Lorenzo Tomio (chitarra e consolle a vista da un angolo del palco), il suono acquisisce una specifica corporeità: in sussurri, cambi di registro, grida, pianti e stupenda chiarezza dell’articolazione, le frasi passano di diaframma in diaframma e compongono una melodia dissonante, legano la voce femminile a un corpo che – sfruttando costumi, mascheramenti, tagli di luce e pose – lotta per perdere la propria specificità e divenire finalmente (e dolorosamente) universale. Allora il ritmo drammaturgico, il disegno scenico e la muscolosa performance delle interpreti permettono che quella “intera epoca” in lamento non sia per nulla quella di Čechov, ma piuttosto una “epoca umana”, ora calda e accogliente, ora struggente e uterina, ora schifosa, brutale, mai rassicurante, in continuo affanno contro la propria stessa estinzione.

Impossibile non ricondurre questo esperimento al precedente lavoro di Muta Imago, Ashes, un folgorante concerto di testo, musica, voce, microfono e corpo in grado di far ascoltare il bordone di suono che ci rende tutte e tutti umani. A legare le due opere è una sottile intertestualità, uno scambio di materiali che fluiscono di copione in copione. E allora Ashes si apriva con un estratto del candido e doloroso monologo del tenente/filosofo Veršinin, qui nella versione di Fazi: «Qualche volta mi domando: se uno potesse ricominciare la vita da capo, ma con tutto quello che sa? Cioè, se la vita che io ho vissuto fosse per modo di dire solo una brutta copia, e la bella dovesse ancora venire? In questo caso nessuno si ripeterebbe, no? Ciascuno di noi vorrebbe crearsi qualcosa di diverso, provare nuove strade, fare altre scelte… oppure rifaremmo tutto nello stesso modo, cercando di farlo ancora meglio… non lo so».

foto di Luigi Angelucci

La complessa ricerca di questo nucleo artistico si sta concentrando sull’analisi del nesso fra ascolto interno e ascolto esterno, tra tempo presente, lacerti del passato individuale e proiezione (spesso nefasta) di future umanità. Una delle chiavi per comprendere sta forse in quella sorta di sognante e tremolante mantra di Veršinin e, ancor più precisamente, nel “non lo so” finale.
Nel copione di Fazi s’insinua, pronunciato proprio dal militare, un inserto scientifico-divulgativo sui buchi neri, che così comincia: «Quando nell’universo una massa troppo grande si concentra in un’area troppo piccola lo spazio e il tempo si lacerano». Ed è esattamente ciò che accade al tempo e allo spazio disegnati da Muta Imago, nel loro assecondare i meccanismi interni della drammaturgia di Čechov, che scarnificando il sistema di relazioni umane traccia un cupo ritratto di filosofia della storia.
I passaggi di stato nell’intricata trama di Tre Sorelle vengono innescati da eventi accidentali (l’arrivo della brigata, il ballo in maschera poi annullato, l’incendio, il duello che uccide il futuro sposo di Irina), una catena di piccoli cataclismi che allontana queste tre dolenti facce dello stesso prisma umano da quell’ingenua immagine di salvezza che era Mosca. Qualcosa di insostenibile e gigantesco schiaccia le minute aspirazioni dell’umano. E sembra quasi che Veršinin, nella sua esitazione finale, intuisca che pure quell’ipotesi, l’immaginifica rivalsa di un individuo su una vita andata nella direzione sbagliata, non potrebbe nulla nei confronti della falce della Storia.

foto di Luigi Angelucci

A uno sguardo che ne osservi il progredire, l’umanità sembra presentare il proprio “essere” attraverso il proprio “fare”: quell’epoca ha prodotto questo, quell’individuo si è comportato così. Il Čechov di Muta Imago è uno spettro ammonitore: le vite degli individui appaiono densamente popolate di particolari minuscoli, decisivi per definire l’identità profonda e però impossibili da verbalizzare e, forse, da iscrivere su pagine di memoria personale. Se ricorderemo un grave lutto, non potremo ricordare il preciso tono assunto da chi ce ne ha dato notizia. E allora come ci ricorderanno tra trecento o un milione di anni? Come coloro che hanno creato quella vita che sarà, pur non vivendola mai. «Cosa facciamo noi, in fondo, se non lavorare per essa, soffrire per essa, per costruirla?».

Sergio Lo Gatto

Teatro India, Roma, maggio 2023

TRE SORELLE
di Anton Cechov
regia Claudia Sorace
drammaturgia / suono Riccardo Fazi
con Federica Dordei, Monica Piseddu, Arianna Pozzoli
musiche originali eseguite dal vivo Lorenzo Tomio
disegno scene Paola Villani
direzione tecnica e luci Maria Elena Fusacchia
costumi Fiamma Benvignati
produzione Index Muta Imago / Teatro di Roma – Teatro Nazionale
in collaborazione con Amat & Teatri di Pesaro per Pesaro 2024. Capitale Italiana della Cultura
con il sostegno di Festival delle Colline Torinesi TPE / Teatro Piemonte Europa

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Sergio Lo Gatto
Sergio Lo Gatto
Sergio Lo Gatto è giornalista, critico teatrale e ricercatore. È stato consulente alla direzione artistica per Emilia Romagna Teatro ERT Teatro Nazionale dal 2019 al 2022. Attualmente è ricercatore presso l'Università degli Studi Link di Roma. Insegna anche all'Alma Mater Studiorum Università di Bologna, alla Sapienza Università di Roma e al Master di Critica giornalistica dell'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica "Silvio d'Amico" di Roma. Collabora alle attività culturali del Teatro di Roma Teatro Nazionale. Si occupa di arti performative su Teatro e Critica e collabora con La Falena. Ha fatto parte della redazione del mensile Quaderni del Teatro di Roma, ha scritto per Il Fatto Quotidiano e Pubblico Giornale, ha collaborato con Hystrio (IT), Critical Stages (Internazionale), Tanz (DE), collabora con il settimanale Left, con Plays International & Europe (UK) e Exeunt Magazine (UK). Ha collaborato nelle attività culturali e di formazione del Teatro di Roma, partecipato a diversi progetti europei di networking e mobilità sulla critica delle arti performative, è co-fondatore del progetto transnazionale di scrittura collettiva WritingShop. Ha partecipato al progetto triennale Conflict Zones promosso dall'Union des Théâtres de l'Europe, dove cura la rivista online Conflict Zones Reviews. Insieme a Debora Pietrobono, è curatore della collana LINEA per Luca Sossella Editore e ERT. Tra le pubblicazioni, ha firmato Abitare la battaglia. Critica teatrale e comunità virtuali (Bulzoni Editore, 2022); con Matteo Antonaci ha curato il volume Iperscene 3 (Editoria&Spettacolo, 2018), con Graziano Graziani La scena contemporanea a Roma (Provincia di Roma, 2013). [photo credit: Jennifer Ressel]

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