Quest’anno La Fabbrica dell’attore, la compagnia guidata da Giancarlo Nanni e Manuela Kustermann, compie 50 anni: un’occasione per ripercorrere alcune tappe fondamentali della loro carriera, dall’incontro con alcuni protagonisti della scena dell’avanguardia romana fino al lavoro svolto dal 1989 al Teatro Vascello, passando per lo storica ripresa de Il Gabbiano, dedicato alla memoria del regista scomparso.
Manuela Kustermann, assieme a Giancarlo Nanni avete a lungo lavorato con alcune figure fondamentali dell’avanguardia romana ’60-’70 tra i quali Memè Perlini, Pippo Di Marca, Giuliano Vasilicò. Com’era il vostro rapporto e come lavoravate?
Molti di questi artisti sono arrivati al teatro che io e Nanni aprimmo nel ‘67, chi per un verso chi per un altro. La Fede era, come poi Nanni ha sempre perpetuato anche qui al Vascello, un luogo aperto a tutti coloro che venivano e chiedevano di potersi esprimere, come attori o in altre forme d’arte. Quell’anno facemmo prima 26 opinioni di Marcel Duchamp di John Cage poi facemmo A come Alice [nel 1970, ndr] e qui arrivò Memè Perlini, presentatoci da Sylvano Bussotti, e stette con noi diversi anni. La Fede era una specie di approdo per tutti. Nanni aveva questa grande capacità di tirar fuori da ognuno la propria creatività, dando a ognuno la più assoluta libertà nel potersi esprimere. Perché nessuno di loro, né Memè né Pippo, né Valentino, Giuliano [Perlini, Di Marca, Orfeo, Vasilicò, ndr] nessuno aveva intenzione di fare quello che poi ha fatto, soprattutto Memè. Lui veniva da una scuola d’arte, disegnava più che altro, poi decise di staccarsi e di fare il suo percorso, come tutti. Quello che a me dà fastidio è che spesso si nominano queste costole di Giancarlo e non si nomina la fonte e soprattutto, adesso lo posso dire dopo tanti anni, Pirandello, chi? [1973, ndr] e Locus solus da Raymond Roussel [1975, ndr] sono stati “rubati” a Giancarlo. In ogni caso a un certo punto ciascuno di loro ha sentito l’esigenza di allontanarsi e proseguire autonomamente il proprio percorso. C’è da dire inoltre che erano altri tempi in cui era più facile creare gruppi, aprire uno scantinato, non c’era tutta la burocrazia che c’è ora, per cui chiunque avesse voglia di mettersi in gioco e provare la strada del teatro e dell’arte era più facile.
Per quanto riguarda la nostra modalità, cioè quella di Giancarlo, si basava esclusivamente quasi solo sull’improvvisazione. Dato un testo, si provava tralasciando il lavoro a tavolino ma passando direttamente alla fase successiva, cioè non allo studio del testo ma direttamente sul palcoscenico, improvvisando. Quello che poi rimaneva, andando avanti con il lavoro, veniva messo dentro allo spettacolo. Ma dobbiamo ricordare che Giancarlo veniva dalla pittura, quella dei “poeti belli e maledetti” degli anni Sessanta e Settanta di Piazza del Popolo: Schifano, Festa, Angeli, Kounellis, Ceroli… A lui non interessava tanto la recitazione quanto comporre un quadro visivo a partire dalla mescolanza di musica, scene, gestualità degli attori.
Questo Gabbiano è stato affrontato in questo modo. Noi per quasi un anno avevamo affrontato soltanto il primo tempo e lo avevamo chiamato Quanta strada ha fatto Čechov per arrivare a Yokohama, destrutturando il testo, facendo improvvisazioni… tanto è vero che poi nella stesura finale del Gabbiano, con anche secondo e terzo atto, tutte le improvvisazioni che avevamo fatto nel primo sono rimaste. Ci sono tre Kostja, c’è una Nina čechoviana e una Nina russa, c’è il dottore che viene doppiato, io sono vestita da uomo e pronuncio le battute di Sorin…
Il Gabbiano, che ebbe una prima versione nel 1996 per poi trovare forma compiuta nel 1997, e che ora avete riportato in scena, testimonia già la vostra lunga permanenza sul palco oltre a una visione ben precisa del vostro modo di operare. Quanto è cambiato in questi venti anni?
Io ho ripreso Il Gabbiano esattamente com’era. Spettacoli così non si fanno più. Abbiamo avuto un grande successo quando lo abbiamo fatto per la prima volta, anche solo osservando le grandi tournée che abbiamo fatto. Però ieri ho avuto la percezione che le persone non si aspettassero questo tipo di visione, perché questo tipo di immagini non si vedono più. C’è oramai sempre più spesso una filosofia del brutto e dello sciatto, mentre questo spettacolo è ricco di immagini, di colori, di suoni, di gestualità, un teatro immagine puro. Probabilmente all’epoca c’erano diversi altri spettacoli che andavano in quella direzione, era stato apprezzato, ma forse ora il sentimento è più forte, al di là del tempo e delle mode.
Tornando a un altro aspetto di carattere storico, un altro grande nome legato al suo esordio in quanto attrice è Carmelo Bene, mi racconterebbe la sua esperienza con lui?
Io ho incominciato con Carmelo che ero una bimba, avevo 14 anni. Dicevo a tutti di voler fare l’attrice, davo il tormento a tutti. Un giorno mi arrivò una telefonata in cui mi veniva detto che un certo signor Bene – che io ancora non conoscevo – cercava un’Ofelia, allora io mi sono presentava a casa di Maria Michi, da cui lui stava in quel periodo; lei era un’attrice dei Telefoni Bianchi, abitava a Piazza Sforza Cesarini. Lui mi vide e due o tre giorni dopo partimmo per Ansedonia dove andammo nella villa della Michi a provare sia l’Amleto che poi il Pinocchio che debuttò a Spoleto nel 1964. Ciò comportò che fui cacciata di casa, perché di punto in bianco avevo deciso di dedicarmi soltanto al teatro. Il rapporto con Carmelo: se devo essere sincera, ho assorbito quello che potevo assorbire, però ero anche un po’ troppo piccola per comprendere tutto quello che lui voleva, forse voleva anche fare un po’ da maestro a me. All’epoca c’ero io e la Mancinelli (Lydia, ndr), Carmelo si era appena messo con lei che faceva la regina nell’Amleto. Io comunque ero molto piccola e l’ho vissuto un po’ inconsciamente, però credo che sia stato uno dei periodi più felici della mia vita, assieme a quello con Giancarlo; tra i più emozionanti, straordinari, perché Carmelo esercitava un fascino che non ho riscontrato in nessuno, Carmelo era irresistibile… Non sto parlando di un fascino erotico, ma di una calamità. Non avendo fatto nessuna scuola di teatro, quell’esperienza mi ha indubbiamente formato, anche e soprattutto per quanto riguarda la dedizione e il rigore, il grande rispetto che io ho per il palcoscenico, per il teatro e per chi lavora in teatro. A dispetto di quanto si possa pensare, nelle prove Carmelo era una persona di una tale pignoleria, di una tale precisione e rigore, da far paura. Che poi appartenesse a quella categoria di artisti cosiddetti belli e maledetti, questa era un’altra faccenda. Una cultura immensa, un’intelligenza sovrumana, e quindi non posso che essere fortunata e ringraziarlo perché mi ha dato questa opportunità. Poi è molto difficile descrivere il rapporto, la genesi di un personaggio… il teatro soprattutto è intuizione, è difficile descrivere che cosa sia l’intelligenza scenica.
Pensando ad alcuni spettacoli iconici della vostra storia, Franziska e Amleto, e alle provocazioni che portarono naturalmente con sé, mi viene in mente che adesso si ha naturalmente una concezione mutata dell’”idea di scandalo” a teatro. Che tipo di reazione avevate avuto al tempo, come era da voi vissuta?
Franziska la facemmo dopo Il risveglio di primavera [rispettivamente nel 1978 e nel 1971 , ndr] un altro testo di Frank Wedekind, che feci tradurre da mia nonna che era originaria di Monaco di Baviera e li aveva frequentato proprio il cabaret di Wedekind; era una donna eccezionale, molto colta, disegnava, scolpiva… Nel testo si parlava di una scena di nudo e noi decidemmo di farla, così come nel Risveglio a un certo punto io uscivo fuori da una tenda insieme a Memè e lui mi alzava in alto mentre avevo un seno scoperto. Ma quella era un’epoca in cui il nudo a teatro era abbastanza una consuetudine. Era stato dato il via dal Living Theatre, quindi nessuno ci faceva più caso. Rivedendo dei vecchi Espresso, per esempio, erano sempre tutti nudi! Non era una provocazione per provocare, soprattutto in Franziska, era da copione.
Il fatto dell’Amleto forse è stato una provocazione più evidente, ma si parla di una provocazione intellettuale più che fisica. Però anche lì, siccome io avevo fatto diversi personaggi molto androgini, come l’Alice, avevo fatto Egidio Fava nei racconti di Hoffmann ne La Principessa Brambilla [1973, ndr], nel Risveglio interpretavo tre ruoli, ovvero Ilse, Vendla e l’uomo mascherato alla fine, avevo fatto Franziska che si traveste da uomo per quasi tutto lo spettacolo perché chiede al diavolo di vivere da uomo per capire cosa si provi… dunque il passaggio è stato quasi senza pensarci. Debuttammo al Festival Shakespeariano di Verona con me come Amleto [1975, ndr]. Tra l’altro prima l’Amleto si doveva affrontare in un’età più avanzata, cioè quando si arriva alla maturità, adesso sono molti ad affrontarlo anche a vent’anni. All’epoca feci un Amleto giovinetto, molto fragile. Un po’ in bilico tra adolescenza e maturità. Sono stati spettacoli molto belli. In ogni caso credo che il teatro debba provocare, magari non la noia, ma emozioni, arrabbiature, turbamenti, domande, qualcosa! Dunque, ben venga la provocazione.
Fin dagli esordi avete sempre legato la vostra pratica attoriale e registica anche a luoghi teatrali, ma tra il 1986 e il 1989 il Teatro Vascello è diventato la vostra casa. Tra l’altro lei è stata una testimone d’eccezione di uno spettacolo come quello di Tadeusz Kantor, Qui non ci torno più. Ha un significato particolare nel suo percorso di visione e interpretazione?
No. No. Non particolarmente. Devo dire che Kantor era un personaggio un po’ inquietante. Non ho avuto un ottimo rapporto con lui. Lo spettacolo era meraviglioso, però io ho amato altri tipi di spettacoli, anche se usava tanta musica, tante metafore, tante elementi simbolici…
Qual è o quali sono gli spettacoli visti entrati nella sua storia personale di interprete e operatrice?
Uno spettacolo di cui ricordo parecchi frammenti fu il Sogno di Peter Brook alla Fenice di Venezia. Quello che rimane ancora oggi è la profonda emozione, per esempio negli spettacoli di danza di Kylian, nel l’Orlando di Ronconi, i primi spettacoli di Nekrošius, meravigliosi… vi riscontravo quasi le stesse modalità di messinscena che avevamo io e Giancarlo. Ovviamente quelli di Carmelo… quelli di Pina Bausch, la felicità che emanavano, uscivi dagli spettacoli di Pina Bausch felice, la sua era una danza alla vita! Poi invece magari negli spettacoli di Carmelo era la morte… ma era uguale! Lo amavo, non avrebbe potuto essere altrimenti; mi feriva nell’animo il suo teatro. L’ultima volta che l’ho visto nel Kleist [In-vulnerabilità d’Achille, impossibile suite tra Ilio e Sciro, 2000, ndr…] il ricordo della sua voce mi ferisce, entra nel cuore, quasi non riesco a sopportarlo.
Quanto peso ha avuto incaricarsi di comporre una programmazione per uno spazio come il Teatro Vascello?
Prima era tutto più semplice, già qualche anno dopo la nostra apertura abbiamo avuto un riconoscimento importante proprio perché qui facevamo ospitalità di gruppi giovani, sconosciuti, teatro d’avanguardia… Chiunque venisse a chiedere ospitalità, presentava il progetto e Nanni lo accettava, ne abbiamo scoperti tantissimi così. Qui lavoravano da Fabrizio Arcuri a Werner Waas, Latella fece diversi spettacoli qui, la Raffaello Sanzio… Adesso le regole sono molto cambiate, c’è un equilibrio da mantenere, non ti puoi più permettere di presentare chiunque venga con un bel progetto ma magari sconosciuto, perché se hai venti persone in sala vieni penalizzato dal Ministero. Ma la nostra funzione dovrebbe essere anche quella di far conoscere gruppi emergenti! Se non lo facciamo noi chi lo fa? Tra l’altro, il Vascello è stato uno dei primi teatri che fin dall’inizio ha aperto alla danza: prima c’erano soltanto delle piccole sezioni dedicate alla danza all’interno della stagione di prosa, ora abbiamo una programmazione davvero eterogenea che abbraccia tutti i campi, per cui presentiamo anche tanta musica. C’è da dire inoltre che prima nelle stagioni si presentavano circa 20 titoli, adesso 70 o 80, è un delirio!
Viviana Raciti