Al Teatro Fabbricone di Prato, Chiara Guidi ha presentato Fiabe giapponesi, uno spettacolo su tre racconti del folklore orientale. Recensione
«Io li attendo, quando i bambini arriveranno in teatro sicuramente metteranno sottosopra tutto quello che è stato scritto e pensato per lo spettacolo, ma è proprio la loro presenza a completare la partitura stessa. Questa è esperienza, e come tale non ha nulla di certo; perché il teatro è come una favola, un luogo nel quale si compie un’esperienza». È con queste icastiche parole che Chiara Guidi condensava il significato del suo “teatro infantile” in un’intervista firmata da Doriana Legge: un teatro in fieri, opera aperta debitrice della presenza attiva e attenta degli spettatori più piccoli, delle loro reazioni necessarie a riempire gli spazi bianchi di una partitura per più voci. Ed è un teatro che delle favole non soltanto si nutre – facendo propria la loro inesauribile ricchezza di immagini – ma che soprattutto di esse ha l’aspetto: la struttura drammaturgica, l’impianto registico, finanche l’allestimento scenotecnico – come nel caso dell’indimenticato Buchettino – immergono il pubblico nelle maglie di una tessitura sognata e sognante, nella quale i ruoli di autore e personaggio, attore e spettatore, si confondono e sovrappongono. Assistere a un lavoro della co-fondatrice della Socìetas Raffaello Sanzio è in questo senso simile a compiere un atto di fede, una salutare epoché da qualsiasi costruzione concettuale pregressa, grazie alla quale abbandonare i retaggi dell’età e riscoprire la dimensione del gioco e dell’imprevisto. «Tu sei un adulto, tu non esisti» è d’altra parte la spiazzante verità, pronunciata con un sorriso, che si può sentire rivolgersi nel foyer del Teatro Fabbricone, dove è stato presentato all’interno della stagione Met Ragazzi Fiabe giapponesi, ideato da Guidi e da lei diretto con Vito Matera. Un’affermazione che esclude dalla partecipazione attiva allo spettacolo, e che al contempo rivela il ribaltamento di prospettiva alla base del lavoro di Guidi, per il quale il bambino non è più un destinatario o un fruitore, bensì il motore primario e la causa stessa del suo “fare teatro”. Mere presenze accessorie di un rituale segreto, gli adulti sono qui semplici osservatori della relazione adamantina che l’artista cesenate stringe con ciascuno dei piccoli spettatori, irretendoli dapprima nell’accadimento scenico, poi nell’ingranaggio affabulatorio del folklore nipponico.
Ancora assiepato nel foyer della sala pratese, il pubblico è richiamato all’attenzione dall’apparizione improvvisa di Guidi che, indossando una veste bianca e basse scarpette nere dalla foggia orientale, soffia energicamente in un fischietto: e quel suono acuto sembra poter interrompere il flusso ordinario degli eventi, precipitando gli astanti in una dimensione ulteriore. Qualche istante di silenzio è sufficiente perché la donna inviti nove bambini a seguirla sul palcoscenico, dove i piccoli – come rivelato con placida ironia – dovranno lavorare: eppure sono proprio la costanza e l’impegno tipici del lavoro a contraddistinguere l’attività che il gruppo sarà chiamato a svolgere. È un afflato operaio e artigianale a differenziare il coinvolgimento alla base di Fiabe giapponesi da qualsiasi facile concessione a un divertimento superficiale, a un intrattenimento svagato che minerebbe la serietà con cui Guidi si rivolge, da sempre, al mondo dell’infanzia. L’ingresso in sala della comitiva, guidata dalla donna, amplifica in questo senso il carattere ancestrale dello spettacolo: condotti a passi lenti verso il palco, i bambini intonano una nenia cadenzata dall’attrice e regista, un ritornello dedicato alle coppie di opposti bianco / nero, chiaro / scuro. Lo spazio scenico – illuminato dalla fredda luce chirurgica firmata, come l’attrezzeria e la tecnica, da Carmen Castellucci, Giovanni Marocco, Eugenio Resta e Vito Matera – è un’intelaiatura di legno e pannelli traslucidi, al cui centro un quadrato di basse panche incornicia uno spazio vuoto. I bimbi, vestiti adesso con grigi grembiuli, separano attorno a quelle panche centinaia di fagioli bianchi da fagioli neri; li anima un ritmo quieto e perenne, una gestualità che inscrive il gruppo nel fatto spettacolare e al contempo costituisce l’elemento centrale di una macro-cornice narrativa. I tre mukashibanashi, le fiabe popolari della tradizione orale giapponese che Guidi legge con voce magnetica, sono novelle che una non più giovane fagiolaia racconta mentre i suoi giovani assistenti riempiono le sporte di legumi, una sera prima di recarsi al mercato cittadino: e tuttavia la certosina costruzione drammatica di Guidi sottrae qualsiasi ruolo preminente all’evento, di per sé fiabesco, che si dipana sotto lo sguardo della platea.
A costituire il nucleo della sofisticato meccanismo sono piuttosto le vicende del ragazzo con la goccia al naso, le avventure della moglie gru, il racconto del pescatore che trascorse trecento anni sotto il mare: soprattutto l’ininterrotto dialogo che l’attrice stabilisce con i bambini presenti in sala, un inesausto scambio di domande e risposte che indaga i sensi sfuggenti, intrisi di saggezza zen e malinconia, delle fiabe. Il vuoto e il nulla costituiscono il vertiginoso terreno concettuale su cui la poetica di Guidi, speculativa al punto da confondersi con la teoresi, sfida il giovanissimo pubblico, invitandolo attraverso un esercizio maieutico a mettere in dubbio qualsiasi certezza, a definire – come nel Menone platonico – cosa sia la virtù, perfino a cercare di comprendere l’essenza della memoria e dell’esperienza umana. Le tre fiabe raccontano scomparse, progressive esclusioni dal mondo, fughe: sono schegge narrative che illuminano il lettore e l’ascoltatore su un mondo ombroso e celato, su spazi non visti e non censiti, su una curiosità colpevole, più simile alla concupiscenza che all’ansia di scoperta. L’immaginario che Guidi, accovacciata all’angolo destro della struttura, plasma con la sua voce, appare mosso da un acuto rispetto del mistero e dalla consapevolezza di quella realtà noumenica situata al di là della sfera sensibile, nascosta ai nostri sguardi. Oltre i pannelli opachi della scenografia – adesso campiti dalla luce nei toni del verde, del blu e del rosso – una danza di ombre ha luogo mentre l’attrice evoca gli scenari subacquei del Palazzo del Drago, o descrive la sontuosa stoffa tessuta con le proprie piume dalla gru: vivificate dalla lettura delle fiabe, silhouette umane si muovono tra gli steli della vegetazione o tengono in mano alcuni scheletri di poliedri. Sono pure forme, correlato visivo dell’impalpabilità della voce e delle parole, che sole forgiano l’architettura di uno spettacolo magistralmente vuoto. Un’opera da riempire: di sogni, idee, dubbi, ricordi.
Alessandro Iachino
Teatro Fabbricone, Prato ‑ gennaio 2018
FIABE GIAPPONESI
concezione Chiara Guidi
direzione Chiara Guidi e Vito Matera
con Chiara Guidi, Francesco Dell’Accio, Francesca Di Serio, Vito Matera
musica originale di Giuseppe Ielasi, Enrico Malatesta, Natàn Santiago Lazala
costumi Francesca Di Serio
luci, set design, attrezzeria, tecnica Carmen Castellucci, Vito Matera, Giovanni Marocco, Eugenio Resta
cura Stefania Lora, Elena De Pascale
produzione Societas