Ateliersi presenta per Romaeuropa Festival un lavoro duro sull’istruttoria dedicata alla Strage di Ustica, curata dal giudice Rosario Priore nel 1999. Recensione
Non è da molto concluso uno spettacolo, in teatro. L’applauso ha poco prima affermato un tributo che nelle sale è sempre più impoverito, divenuto consuetudine. Scivolo via – consueto, anch’io – per lasciare la sala a chi ne farà deserto – di suoni, di meccanica, di parole, di sentimenti. Ma ci sono due ragazze che conosco, le saluto, hanno qualcosa di inquieto, come le avessi prese a metà di un discorso carbonaro, da non fare lì, da non fare con tutta quella gente intorno. Siamo alla Pelanda di Roma, Ateliersi ha appena presentato De Facto per Romaeuropa Festival 2017. Una delle due, quella che conosco meglio, a un certo punto mi chiede di aiutarla a capirci qualcosa, vuole sapere molte cose ma dietro ce n’è una più di altre che tutte le muove, è nata lì in platea la domanda, figlia di un ascolto derivato che non ha sortito l’effetto sperato, cercato uscendo da casa, desiderato prima di uscire. Ed è in virtù di questo che inizia qui un concerto a tre voci per occhi ed emozioni. Una missione di testimonianza che chiameremo, per convenzione, teatro. Ossia ciò che inizia appena finisce lo spettacolo, direbbe uno dei maggiori critici della storia teatrale italiana: Attilio Scarpellini.
Sappiamo tutti e tre, da pochi elementi, che alla base di questo lavoro è la volontà di mettere sotto indagine uno dei grandi rimossi della storia contemporanea: le 81 vittime civili della Strage di Ustica del 27 giugno 1980, giorno in cui un aereo italiano di linea è esploso apparentemente nel nulla, con la sorprendente presenza di un aereo militare statunitense alle sue spalle e di un aereo militare libico nei dintorni. Ma, più nel dettaglio, non è il caso che interessa Fiorenza Menni e Andrea Mochi Sismondi, è precisamente la sentenza del giudice Rosario Priore, quella che nel 1999 chiude l’inchiesta con una condanna dei vertici militari dello Stato e soprattutto con un’apertura a considerare il fatto come un deliberato atto di guerra non dichiarata.
Abbiamo appurato inoltre come la scena, una struttura lievemente rialzata e delimitata da due sottili pali di legno su cui sono piccole piramidi luminose, si apra su un ambiente di luci fredde, su fino allo schermo dove si rincorrono geometrie stilizzate dei primi anni Ottanta (di Giovanni Brunetto e Diego Segatto); le immagini assecondano mute un linguaggio musicale invece pulsante e definito, nato dalla composizione elettroacustica di Caterina Barbieri, cosciente e raffinata nel ri-produrre un immaginario d’epoca non soltanto citandone i contenuti ma volendone riaffermare un primato non ancora eguagliato (chiude con l’inverno appena precedente il decennio psichedelico firmato Pink Floyd; se ne sente eco nell’intera composizione).
Ma il motivo del nostro dibattere è in realtà determinato dal linguaggio, o meglio il duro testo desunto dagli atti della sentenza – 5000 pagine – che prende vita sul palco attraverso le voci dei due registi e della cantante e performer Francesca Pizzo. Le ragazze portavano in viso una lieve delusione per non aver potuto catturare stilemi di recitazione forse più espressivi nei segmenti di testo ascoltati, in cui riconoscere chissà un particolare percorso attoriale, l’evidenza delle forme non bastava loro per esprimere un consenso. Ma, qui mi premeva un contributo, c’era qualcosa cui non avevano prestato attenzione, lo scoprivo dalla loro domanda; si trattava della concessione che la storia fa al presente, una volontà dell’arte di mescolare le certezze definite con invece i propri dubbi, rivitalizzare un linguaggio giuridico depotenziato della verità, come a voler dire che la nostra società ha inteso ignorare dalla giustizia il raggiungimento di quella conclusione che chiamiamo, appunto, verità dei fatti – la sentenza definitiva è del 1999, ma ancora oggi chiunque parla di Ustica come di un mistero italiano – e che c’è bisogno, pertanto, di recuperarla attraverso la ricostruzione delle forme regolari a partire dall’irregolarità dei contesti (così il testo giuridico è recitato e cantato), dalla frammentazione di un linguaggio invece solido e – apparentemente – inviolabile.
Le due ragazze hanno fatto seguire un breve silenzio, lo stesso che forse stavamo dedicando a una memoria repressa e invece chiara agli occhi di tutti, una verità non ufficiale ma su cui – De Facto – abbiamo capito ci sia, o debba esserci, condivisione di prospettiva. Nei nostri occhi iniziava ad affiorare la convinzione che se la legge ha una prescrizione la giustizia non l’avrà mai, come se finalmente tra noi fosse possibile far confluire la direzione del radar che appare a fine spettacolo e che nell’ambiente sonoro psichedelico chiede “is there anybody in there?”, usando le stesse parole che durante quel 1980 già da qualche mese vibravano nella Comfortably Numb dei Pink Floyd, da poco uscita nel recente The Wall. Forse sì, ora c’è qualcuno in più qui dentro, forse ora non è che più che vero che your lips move but I can’t hear what you’re saying, forse non siamo più piacevolmente insensibili, forse siamo, fuori dal teatro, dolorosamente consapevoli.
Simone Nebbia
La Pelanda, Romaeuropa Festival 2017 – ottobre 2017
DE FACTO
Di, Con Fiorenza Menni, Andrea Mochi Sismondi
Con Francesca Pizzo
Composizione, Esecuzione musicale Caterina Barbieri
Immagini video Giovanni Brunetto
Suono Vincenzo Scorza
Comunicazione, Promozione Tihana Maravic, Federica Patti
Organizzazione, Amministrazione Elisa Marchese
Direzione tecnica Giovanni Brunetto Vincenzo Scorza
Immagine, Grafica Diego Segatto
In collaborazione con Associazione Parenti delle Vittime della Strage di Ustica Produzione Ateliersi Supporto MiBACT, Regione Emilia Romagna, Comune di Bologna