Il sindaco del Rione sanità messo in scena al Nest Teatro di Napoli e poi a Torino, con una incisiva lettura di Mario Martone verso il contemporaneo. Recensione
A leggere oggi Il sindaco del Rione Sanità, a quasi sessant’anni dalla prima messinscena, saltano immediatamente agli occhi due questioni decisive. La prima è praticamente ovvia, l’opera di Eduardo è ancora oggi in grado di parlare con immediatezza delle tensioni e contraddizioni che attraversano la società. La seconda è relativa a una precisa particolarità della forma che invece nella scrittura drammatica di oggi non trova spazio: l’autore usa le didascalie come veri e propri inserti narrativi; le descrizioni delle azioni che dovrebbero svolgersi sul palco sono accurate fin nei particolari e ad alcuni passaggi De Filippo dedica interi paragrafi, piccole finestre sulla forma romanzo.
L’entrata in scena del protagonista, Antonio Barracano, è emblematica; ecco come nella lunga didascalia viene presentato nel testo: «I settantacinque anni dell’uomo sono invidiabili: è alto di statura, sano, asciutto, nerboruto. La schiena inarcata gli conferisce un’andatura regale». Mario Martone, per la regia pensata per (e con) il gruppo del Nest (Napoli Est Teatro), invece opta per un attore neanche quarantenne (Francesco di Leva), scelta che come vedremo avrà diverse conseguenze.
Una storia, quella del Sindaco, che oggi facilmente archivieremmo come una vicenda di Camorra. E non sarebbe una lettura completamente errata, d’altronde la pièce comincia in medias res per cui un interno borghese ai piedi del Vesuvio si trasforma durante la notte in una sala operatoria. Due individui, colpi di pistola e un medico pronto a ricucire il malcapitato. Se il testo si riferisce a un’altra zona “difficile” di Napoli, la Sanità appunto, San Giovanni a Teduccio (dove è situata la sala) compare però tra le prime righe come zona della sparatoria avvenuta per futili motivi. L’attualizzazione operata da Martone mostra subito le proprie carte, l’uomo ferito è un rapper, agghindato da vero mc. Il lusso della casa di Terzigno, nella quale il Sindaco riceve e lavora è idealizzato attraverso l’uso di un pavimento trasparente, come trasparenti sono anche le sedie, da un divano in pelle nero, una ringhiera che delimita il palco e una porta in ferro sul fondo. Antonio Barracano fa il proprio ingresso in tuta nera con cappuccio, è un boss quarantenne, con i muscoli tonici e depilati; mentre parla si mantiene in allenamento con una panca per addominali. Ora, dato che si tratta di adattamento e non di riscrittura l’obiettivo è quello di rispettare il testo, Barracano allora è un giovane padre affettuoso, marito innamorato di una provocante Armida. I figli che nella drammaturgia oiriginale hanno ormai un’età adulta qui sono tardoadolescenti o bambini.
D’altronde è proprio il tema della famiglia ad alimentare il plot: Antonio ama talmente i suoi figli tanto da dividere interamente i suoi beni con loro mentre è ancora in vita, ma proprio nel risolvere una contesa familiare si spegnerà la sua parabola.
Qui forse sta il punto di sutura più delicato e fragile tra la scrittura di Eduardo e la messinscena del Nest: l’unica motivazione a cui può appellarsi Antonio una volta accoltellato, per rifiutare di lasciarsi accompagnare in ospedale, è proprio quello sconfinato amore per la famiglia. La paura di ritorsioni verso i figli gli impedisce di farsi curare e sporgere denuncia almeno contro ignoti. Il protagonista immaginato da Eduardo invece porta con sé il fardello di una vita intera passata attraverso l’esercizio logorante del potere. Allora quel lasciarsi morire del finale non è solo un sacrificio ma anche una liberazione, come se quel «girare a vuoto» di cui parla Fabio, il professore, in realtà sia stato sempre ben chiaro anche al Sindaco.
Martone sacrifica eleganza, speranza e leggerezza per calare la vicenda nell’inferno di una Gomorra contemporanea, operazione giustificata se serve ad avvicinare i giovani al teatro del più importante drammaturgo napoletano. La scena in cui Barracano viene ferito a morte è agita mentre nell’originale è solo raccontata; ma è soprattutto il finale a chiudere qualsiasi possibilità: quello pensato da Eduardo vede il professore prendere finalmente una decisione scegliendo di scrivere il referto della morte per ferimento e non per «collasso cardiaco» come chiedeva il Sindaco. Lo spettacolo del Nest nega anche questa possibilità, le luci si spengono prima, neanche l’agire in coscienza è una speranza.
Di certo però al di là delle motivazioni che possono muovere i personaggi, che siano spinte più o meno credibili, va evidenziata la prova di un gruppo di attori giovani e affiatati. Ad impreziosire l’ensemble il carisma di Francesco di Leva calato perfettamente nel ruolo del protagonista, l’eleganza di Massimiliano Gallo (Arturo Santaniello) e la complessità con cui Giovanni Ludeno si accosta al personaggio di Fabio. Soprattutto va mostrata questa collaborazione produttiva tra due importanti e storici soggetti, ovvero lo Stabile di Torino e la compagnia che fu di Luca De Filippo, Elledieffe, insieme al gruppo che una decina di anni fa ha ben pensato di ricavarsi uno spazio in una scuola abbandonata nella periferia napoletana di San Giovanni.
E infatti è poi facile comprendere come tutte le questioni relative a una possibile riflessione sull’aderenza con il reale si attenuino nel momento in cui, senza soluzione di continuità, la vita intorno al teatro brulica di quelle stesse voci, parla ancora la lingua dei Barracano, dei Plumiello, Nait, Catiello, Gennarino…
Andrea Pocosgnich
in scena al Nest (Napoli Est Teatro) fino al 17 marzo
al Teatro Gobetti di Torino da martedì 21 marzo a domenica 2 aprile 2017
IL SINDACO DEL RIONE SANITÀ
di Eduardo De Filippo
regia Mario Martone
con
Francesco Di Leva, Giovanni Ludeno
Adriano Pantaleo, Giuseppe Gaudino, Daniela Ioia, Gennaro Di Colandrea,
Viviana Cangiano, Salvatore Presutto, Lucienne Perreca, Mimmo Esposito,
Morena Di Leva, Ralph P, Armando De Giulio, Daniele Baselice
con la partecipazione di Massimiliano Gallo
scene Carmine Guarino
costumi Giovanna Napolitano
luci Cesare Accetta
musiche originali Ralph P
regista collaboratore Giuseppe Miale Di Mauro
assistente scenografo Mauro Rea
capo elettricista Giuseppe Di Lorenzo
fotografie Mario Spada
manifesto Carmine Luino
una produzione Elledieffe / NEST – Napoli Est Teatro / Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale
Visto ieri lo spettacolo. Nella critica si parla di “carisma” di Di Leva. Invece per me è proprio qui la prima delusione. A mio avviso Di Leva non ha la statura attoriale per sostenere un ruolo così. Non ho creduto un attimo al fatto che il suo personaggio possa essere il rispettato e temuto SINDACO. Sembrava più uno dei tanti “guappi” di GOMORRA. Il rifarsi poi alle atmosfere del libro di Saviano (e ancor più della serie) mi ha abbastanza infastidito. Possibile che i napoletani debbano per forza e solo rappresentare in questo modo la loro realtà criminale? Con il modo di muoversi e parlare stereotipato alla GOMORRA? Una scelta facile che inoltre toglie forza ad un testo che non ha più la potenza di quando è stato scritto. Se negli anni ’60 Eduardo ha scosso il pubblico con un argomento forte come la camorra, oggi appare quasi ridicola la figura romantica del boss Antonio Barracano, che per di più in questo adattamento giovane e con una figlia piccola, decide di morire pur di non dar seguito ad una faida che avrebbe coinvolto anche i suoi figli. Ho fatto fatica a trovare una idea di regia. Non basta far fare il rapper ad uno degli attori per poter dire che Martone abbia fatto un lavoro di riscrittura o di modernizzazione del testo. Il monolgo finale del professore, che è la vera e giusta chiusura del testo, viene tolto a favore di un finale monco. Insomma grande delusione da un gruppo come il NEST che dovrebbe rappresentare una delle innovative nuove realtà partenopee