Lo spettacolo Fa’afafine di Giuliano Scarpinato sta subendo attacchi frontali da diverse associazioni che vorrebbero impedirne la circolazione nelle scuole. Una riflessione approfondita.
Di che stiamo parlando?
Lo spettacolo Fa’afafine – Mi chiamo Alex e sono un dinosauro di Giuliano Scarpinato è stato nel 2014 tra i vincitori del Premio Scenario Infanzia. Da allora, co-prodotto dal CSS Teatro Stabile d’Innovazione del Friuli Venezia Giulia con il Teatro Biondo di Palermo, ha ricevuto diversi riconoscimenti e girato l’Italia nei cartelloni del teatro ragazzi, accumulando consensi anche dal pubblico adulto. Non è la prima volta, tuttavia, che quest’opera riceve in cambio anche una generosa dose di polemiche.
Il motivo è ben noto a tutti: la tematica al centro di Fa’afafine è il confronto con l’identità di genere, un concetto – come cercheremo di dimostrare qui – troppo spesso frainteso e macchiato da ignoranza e leggerezza non più sopportabili. La storia di Alex, del suo affetto speciale per l’amico Elliot e del tentativo di attraversare insieme ai genitori un complesso processo di autoriconoscimento prende ispirazione dal blog di Lori Duron, Raising my Rainbow (nel 2013 è stato pubblicato un libro), seguito in 173 paesi da oltre un milione di lettori, tra cui 50 college e università solo negli Stati Uniti, culla dei Gender Studies.
Duron racconta l’avventura di crescere un figlio “di genere non conforme”, che Scarpinato riscrive in una drammaturgia per parole, attori e immagini. Di quest’opera, che abbiamo seguito fin dall’inizio, abbiamo parlato ampiamente e non vogliamo impegnare questo spazio per lodarne i presupposti o la riuscita. Tentiamo invece qui di riportare una piccola inchiesta che ha interrogato direttamente alcuni sostenitori della protesta, con lo scopo di discutere a fondo i temi portati alla ribalta nazionale in maniera, a nostro parere, distorta e non sufficientemente informata.
Qualche fatto.
Il 17 gennaio l’associazione Generazione Famiglia lancia una petizione dal titolo Stop Gender a scuola: NO allo spettaolo “Fa’afafine” per raggiungere 100mila firme (ad oggi se ne contano 101.574 e si punta alle 200mila). La protesta non ha mancato di attirare frange più estreme del dibattito socio-politico, tra cui l’Associazione Evita Peron (affiliata al gruppo Forza Nuova), esplodendo poi sulla stampa nazionale e sui social media, fino a raggiungere la presa di posizione della politica nelle regioni Lombardia, Liguria e Veneto, dove l’assessora all’Istruzione Elena Donazzan (Forza Italia) ha scritto una lettera indignata alla ministra Valeria Fedeli. All’Associazione Nazionale Famiglie Numerose e al Movimento Cristiano Lavoratori si aggiunge poi Lega Nord Toscana, animatrice il 27 gennaio di un sit-in di fronte al Teatro Bolognini di Pistoia (qui una riflessione di Guido Mencari su KLP). Nel frattempo una petizione a favore di Fa’afafine sta facendo il giro dei social (ad oggi 2.592 firme su 3.000) e accanto alla risposta di Scarpinato – numerose interviste rilasciate, spesso non accuratamente riportate dai giornali – c’è stata quella di una lettera a sostegno dello spettacolo promossa da Sergio Logiudice e Daniele Viotti e firmata da altri 43 parlamentari, nella quale si parla di «spettacolo coraggioso, che ha il merito di portare avanti un tema fondamentale per la costruzione di una società più libera, aperta e uguale».
Che cosa sta succedendo?
Dopo aver parlato a lungo con Filippo Savarese (portavoce di Generazione Famiglia) e con Desideria Raggi (responsabile Nord dell’Associazione Evita Peron) esistono diverse questioni fondamentali che stanno rappresentando un reale pericolo di carattere culturale. Ci piacerebbe pensarle indipendenti da ogni presa di posizione ideologica, ma ci arrendiamo a constatare che questo non è possibile.
Cominciamo premettendo che i due, entrambi figure di rappresentanza (portavoce e responsabile) dei relativi movimenti, dichiarano di non aver visto personalmente lo spettacolo in questione, ma di affidarsi ad “altre persone” nell’associazione.
Secondo Generazione Famiglia, spiega Savarese, «il mondo scolastico è fondato su un assunto: l’alleanza tra scuola e famiglia. Ma ovviamente nessuno di noi manderebbe il proprio figlio senza sapere che cosa viene insegnato in quelle ore». La protesta concentrata nella petizione non è dunque «di natura artistica o culturale nei confronti dello spettacolo, che può girare dove vuole. Il problema è quando viene proposto ai ragazzini, tante volte con una insufficiente informazione da parte delle scuole nei confronti delle famiglie».
A domanda diretta, il portavoce risponde che l’interesse di Generazione Famiglia e degli altri movimenti è solo quello di riordinare la filiera delle informazioni «in modo che le famiglie siano a conoscenza dei contenuti dei materiali reputati formativi».
Fino a qui, la questione si vorrebbe immaginare a monte di ogni specificità di quei contenuti. Con Savarese siamo stati d’accordo che quel patto che c’è tra scuola e famiglia non si debba interrompere. Vero è che, nell’ambito dell’educazione e della formazione, esistono figure incaricate – a partire da precise professionalità comprovate dalle stesse istituzioni – di mettere a punto un progetto formativo. Di certo quel patto di fiducia viene sottoscritto con l’accordo, tutt’altro che tacito, che la famiglia stessa usi i propri strumenti per entrare nel vivo delle questioni discusse nelle classi, mantenendo tuttavia intatto il principio di delega. Ma ammettiamo pure che il punto sia solo qui: «Al cuore della nostra attività c’è la lotta alla disinformazione», insiste il portavoce, che dice di lottare contro una «forte pressione» impressa dalla politica sul tema dell’identità di genere. In ogni caso egli chiarisce che «non è una caccia alle streghe». E però “le parole sono importanti”, diceva Nanni Moretti. Diventa una caccia alle streghe quando si comincia a utilizzare termini impropri per riferirsi a tematiche e forme di una qualsiasi operazione comunicativa.
Primo allarme: dov’è la corretta informazione?
Generazione Famiglia è a favore di una corretta informazione. Riprendiamo da questa crociata e andiamo a osservare la forma dell’informazione proposta. Ammettendo la nettezza dei termini usati nelle comunicazioni di massa, Savarese sottolinea la necessità di «alzare il polverone, altrimenti nessuno ci ascolta». Ci si dichiara comunque lontani da ogni strumentalizzazione di matrice ideologica. Ma appunto, ogni buona intenzione va poi confrontata con il linguaggio che la esprime, che è esattamente la camera di mutazione di un discorso autorevole nel suo contrario, il discorso autoritario: da pratica che ispira la libertà di pensiero a pratica che istituisce l’accentramento di una posizione aprioristica.
Se si scorre il testo della petizione, i post sui social media che ne fomentano la diffusione e addirittura la maggioranza della rassegna stampa locale e nazionale, ci si rende immediatamente conto della velocità con cui questa protesta stia allontanando la dimensione reale della materia specifica trattata.
Nella petizione si parla de «la nuova ideologia totalitaria di questo secolo: il nichilismo che vuole ridurre a nulla la bellezza della differenza sessuale e, quindi, la fecondità di vita che porta con sé». Ci paiono parole molto forti, macchiate esse stesse in primis di ideologia. Ma, come già detto, abbiamo abbandonato la speranza di trattare questi argomenti liberi dai segni della mentalità che li veicola. Allora, ancora più importante – e più grave – è la questione che riguarda l’ecologia dell’informazione, quella stessa informazione che la protesta dichiara di voler rigenerare.
«Non si può bypassare il problema della sfera sessuale chiamandola sfera di gender», sancisce Savarese al telefono. E invece sì, rispondiamo, sono due sfere diverse. Nella petizione si riporta parte della scheda artistica di Fa’afafine, introdotta però da: «Di cosa tratta lo spettacolo? Di un bambino “transgender”». Non ci vuole una laurea in psichiatria, psicologia o endocrinologia per sapere che il termine “transgender” si riferisce a un particolare stadio del processo di cambiamento di sesso in un individuo. Lo spettacolo non mette in scena alcun transgender, bensì un individuo che si trova nella fase di negoziazione della propria identità di genere.
Donazzan sulla sua pagina Facebook scriveva: «Migliaia di bambini e adolescenti saranno condotti dalle scuole ad una rappresentazione che ha l’intento dichiarato di mettere in crisi la loro identità sessuale»; un’eco distorta è anche quella de Il Giornale («Insegnanti e presidi, insomma, porteranno bambini delle medie ad assistere ai dubbi sessuali di Alex»; «Né uomo né donna, ma una via di mezzo che balza da una parte all’altra come se l’identità sessuale fosse un tappeto elastico»). Desideria Raggi, in una conversazione telefonica, afferma testualmente: «Il genere è comunque dettato dalla nascita, nel momento in cui a livello biologico tu nasci o maschio o femmina».
Allora – visto che gli attivisti e la stampa stessa arrivano addirittura a usare il termine “gender” come un aggettivo («spettacolo gender», «teatro gender») – forse è necessario chiarire ancora una volta qualche differenza.
Vogliamo ristrutturare l’informazione? Cominciamo usando i termini giusti. Da una parte c’è il sesso biologico che, allo stato attuale della ricerca medica, può essere influenzato da farmaci e chirurgia, ma non ristrutturato da zero (capiamoci: l’individuo reduce dalla perfetta operazione di “transizione” non è comunque in grado di procreare); dall’altro ci sono i fenomeni analizzati dagli studi di genere, che secondo l’Ordine degli Psicologi, «analizzano come cambino nelle società e nelle epoche storiche i riferimenti maschili e femminili e come questi incidano sulla condizione di uomini e donne».
All’interno dei gender studies si dividono due direzioni, “identità di genere” e “ruolo di genere”: la prima fa riferimento alla percezione di se stessi, il secondo a comportamenti, attitudini e tratti della personalità che una società definisce “maschile” o “femminile”. C’è poi l'”orientamento sessuale”, la risposta di una persona a uno stimolo sessuale.
Perché tutte queste (brevi) lezioni? Perché proprio quella polemica che lamenta il mancato controllo e la carenza di informazione piomba (per esigenze di «polveroni» da alzare, a quanto pare) su una totale distorsione dell’informazione stessa, ormai ben più lontana da qualsiasi controllo.
Più di centomila italiani hanno reputato autorevole la protesta, inserendo nome e cognome in una raccolta firme che ha raddoppiato il proprio obiettivo. Ma, ci dice la teoria, un enunciato è autorevole nel momento in cui si fa «luogo di manifestazione di un surplus (rispetto ai meri fatti) capace di generatività: di generazione e accrescimento delle possibilità personali e collettive» (Stefano Biancu, Saggio sull’autorità).
Se nel caso dell’Associazione Evita Peron quel surplus si riassume, autoeliminandosi, in una serie di striscioni che recita: «La favola del Gender che non esiste!», questa cautela Generazione Famiglia sembra volerla assolvere inserendo in calce alla petizione un «approfondimento della dottoressa e scrittrice di storie fantasy per adolescenti Silvana De Mari». E allora andiamo a leggerci anche quello.
Innanzitutto De Mari si lamenta dei criteri del Premio Scenario, che privilegiano «inoltre i progetti che dimostrino di uscire dalle demarcazioni e dagli standard di genere». Gli standard (o stereotipi) di genere, per capirci, sono le credenze riguardo alle caratteristiche dei maschi e delle femmine laddove collegate ad atteggiamenti e posizioni sociali (esempio: sesso forte, sesso debole; uomo che lavora, donna che bada ai figli, etc.).
De Mari si spinge oltre: «Il ministro Giannini ha espressamente dichiarato in una circolare ufficiale del MIUR che l’ideologia gender non va utilizzata come metodologia per prevenire il bullismo e la violenza di genere». No, signora De Mari, no. La Circolare chiede al personale scolastico di favorire «l’aumento delle competenze relative all’educazione all’affettività, al rispetto delle diversità e delle pari opportunità di genere e al superamento degli stereotipi di genere». Nella Circolare non si parla di ideologia, ma di «conoscenza e consapevolezza» da promuovere in rispetto del diritto europeo che «proibisce la discriminazione per ragioni connesse al genere, alla religione, alle convinzione personali, handicap, età, orientamento sessuale o politico».
Parlare dunque in questo caso di “utilizzo di ideologia gender” è un’argomentazione, appunto, ideologica. Giusto in calce a una petizione che dice di limitarsi alla richiesta di una corretta informazione, come «approfondimento» si offre una norma di legge reinterpretata come strumento di propaganda.
Tornando alla teoria riassunta da Biancu: l’autorità espressa da enunciati di carattere ideologico si trasforma molto facilmente da autorevole ad autoritaria, nel momento in cui «qualcosa di indisponibile (la conoscenza specifica della materia e del mezzo, in questo caso, ndr) di cui il portatore di autorità è percepito come una presenza concreta entra nelle sue immediate disponibilità divenendo un possesso».
Il risultato di questa fallimentare ecologia? È tutto nei commenti agli articoli e ai post Facebook, da quelli che chiamano Scarpinato «pederasta» a quelli di chi scrive: «I pedofili stanno governando l’Europa»; «La gaystapo continua la diffusione del gender diktat!»; «Fra qualche decennio la lobby delle Finocchie & Finocchi faranno lo spettacolo nelle scuole “Sesso Libero a 8 anni”»; «La lobby dei gay evidentemente vuole imporci una società di gay e lesbiche». Fino a «Le menti forviate diaboliche vorrebbero usare questo sistema per impedire all’occidente di espandersi con le nascite a vantaggio dell’islamizzazione del continente». Ma su, qui stiamo parlando di persone senza cervello! Oppure di quegli stessi che hanno portato la petizione oltre le 100mila firme.
Secondo allarme: che fine fa il teatro?
Vogliamo chiudere questo approfondimento esprimendo un altro profondo rammarico. Nonostante il tentativo di Giuliano Scarpinato e dei suoi sostenitori, l’intero “polverone” si alza attorno alle parole «contenuto», «ideologia», «tematica», analizza trame e riassunti, ma incarna una fondamentale e colpevole dimenticanza: il mezzo attraverso cui la comunicazione di questo contenuto raggiunge il destinatario. Il teatro.
Nelle conversazioni telefoniche Savarese afferma che non è possibile per il bambino «capire di che cosa si stia parlando. Come può inserire nella naturale incertezza che si ha in quella fase questo bombardamento all’insegna del “una mattina sono maschio e l’altra femmina”?». Raggi continua a parlare di «favola, e dunque una maniera subdola», ignorando completamente la realtà odierna e il fatto – pur dichiarato – che lo spettacolo tragga spunto da un racconto di vita.
Savarese ammette l’importanza della tematica, ma «se fosse un discorso culturale per persone dotate degli strumenti per affrontarle non ci sarebbe problema, il punto è quando questo viene proposto come formativo per i bambini». Come se si stesse parlando di invitare classi di bambini dagli 8 anni in su ad assistere e magari intervenire a un convegno sui Gender Studies. Eccola, la vera sconfitta: parlare con persone che non solo non hanno visto lo spettacolo, ma che non prendono neppure in considerazione le specificità del linguaggio teatrale, che si fonda su precise responsabilità e ruoli, su professionalità e artigianato.
Forzata da posizioni ideologiche e da imperdonabili leggerezze, la protesta si sta colpevolmente disinteressando della forma di questa comunicazione. E questo sì che è un problema culturale, che va ben oltre le specificità dei target e arriva a investire l’assetto comunicativo di un paese, le regole che lo delimitano, la capacità critica di assegnare alla relazione umana la possibilità di trovare dei mezzi (il teatro è solo uno di questi) per veicolare ragionamenti. Allora siamo categorici anche noi, per una volta in questo articolo: la trama di uno spettacolo – soprattutto quando fraintesa o raccontata in maniera errata – non deve essere sufficiente a restituire la complessità e le specificità di un lavoro teatrale. Chiunque abbia un minimo di esperienza di spettatore sa che ciò che performer e spettatore condividono non è semplicemente un pacchetto di informazioni, ma un complesso processo di scambio continuo che è esattamente il veicolo di quella relazione.
E allora, parlando con un collega e amico, riflettevamo su come sia orribilmente più semplice fermarsi al contenuto. Forse ciò che davvero spaventa del teatro è la sua forma. Perché quella mai nessuno è riuscito a incatenarla. Ma ne siamo davvero sicuri?
Sergio Lo Gatto
Vuoi vedere lo spettacolo Fa’afafine – Mi chiamo Alex e sono un dinosauro?
Ecco le prossime date della tournée
23 gen / Udine, Teatro San Giorgio
24 gen / Pordenone, Teatro Verdi
25 gen / Cervignano, Teatro Pasolini (UDINE)
26-27 gen / Pistoia, Teatro Bolognini
30 gen / Ravenna, Teatro Rasi
31 gen / Castello D’Argile, Teatro Comunale
1 feb / Merano, Teatro Puccini
3 feb / Brunico, Haus der Kultar M.Pacher
6 feb / Vipiteno, Teatro Comunale
9 feb / Bressanone, Teatr Forum
11 feb / Cantù, Teatro San Teodoro
14-17 feb / Bolzano, Teatro Comunale Gries
18-19 feb / Firenze, Teatro di Rifredi
3 mar / Vimodrone (Mi) Circolo Everest
4 mar / Trevi , Teatro Clitunno
6 mar / Trento, Teatro Cuminetti
7 mar / Vicenza, Teatro Astra
8 mar / Mira, Villa dei Leoni
11 mar / Melfi, Teatro Ruggiero
13 mar / Matera, Auditorium Comunale
18-20 mar / Roma, Angelo Mai
28 mar / Lucca, Teatro San Girolamo
Articolo molto bello e che tocca la tematica sotto vari aspetti, quello relativo alla forma teatrale in sè stessa devo dire che non so se mi sarebbe mai venuto in mente. Purtroppo avete cercato di raffrontarvi con chi determinati ragionamenti non li vuole capire o proprio non è in grado di capirli.. “onore al merito” a voi per averci provato.
Questo articolo mi pare un ottimo lavoro documentato e critico che apre a molte riflessioni. Fa specie di sicuro che i portatori di critica allo spettacolo ammettano in primis di non averlo visto ma ugualmente si fanno promotori della sua demonizzazione. Ottimo il lavoro di ricostruzione ed analisi delle critiche con osservazioni puntuali e documentate. Ci si potrebbe chiedere perchè ci si impegni a creare una macchina del fango contro questo spettacolo, a cosa mirano, perchè creare e diffondere paure ? Si può infine notare come chi accusa altri di diffusione di ideologie in realtà ne è in prima persona artefice.
Se si analizza bene, Generazione Famiglia non impone una censura totale allo spettacolo, che per adulti o ragazzi sufficientemente maturi può essere tranquillamente visto e dibattuto. Il problema è proprio quando questo spettacolo è proposto tramite la scuola a BAMBINI, spesso senza che ci sia consapevolezza da parte dei loro genitori. Sembra che ci sia una corsa, in alcune scuole, a chi insegna prima ai bambini cosa vuol dire essere maschietto o femminuccia, e come si usa ogni parte del corpo. D’altronde, un bambino di 8-9 anni cosa può commentare dopo aver visto questo spettacolo?
[…] a chiedere di censurare lo spettacolo nelle scuole (vedi un articolo di Sergio Lo Gatto su Teatro e critica) , ora ci si è messa anche Casa Pound. E se finora la polemica si era limitata a animati incontri […]