Parliamo del festival di Margine Operativo, Attraversamenti Multipli, e diamo uno sguardo sul tessuto urbano romano in un’intervista ad Alessandra Ferraro.
«Roma è una bella città, ma le strisce pedonali sono sparite, non puoi attraversare la strada, le piste ciclabili sono state bruciate». L’analisi ironica – o forse no – è quella di un fantomatico romano, anglofono, nella docufiction che Margine Operativo diffondeva a maggio per rispondere alla domanda: che cosa dovrebbe fare il nuovo Sindaco nel migliore dei mondi possibili? In effetti, nel 2000, la scelta di chiamare il proprio festival Attraversamenti Multipli, una vera e propria operazione artistica che percorresse lo strato urbano di una città come Roma, per Margine Operativo fu – e oggi rimane – una sfida. Provate voi ad attraversare non la città, sarebbe eccessivo, ma un quartiere o una strada di Roma, e ne scoprirete il perché. Eppure in quell’anomalia propria del territorio romano Attraversamenti Multipli, dichiaratamente in bilico tra diversi codici artistici, zona di confine tra gli spazi teatrali e il territorio urbano, arriva quest’anno alla sedicesima edizione.
Per continuare a dare cittadinanza alle diverse pratiche delle arti sceniche avete pensato quest’anno alla parola “meticciato”, accomunando l’attraversamento dei confini tra le discipline artistiche a quello territoriale e culturale.
Meticciato, sì, ci sembra un modo di guardare al contemporaneo, sia nelle opere artistiche che nella realtà. In questo momento c’è una presenza in Italia di altre culture e dobbiamo assolutamente confrontarci a un livello più profondo con tutto questo; è una sfida per l’arte cercare, per quanto possibile, di creare nuove prospettive e immaginari culturali diversi ad esempio dalle barricate di Goro (FE) dei giorni scorsi, erette contro l’arrivo di otto donne e undici bambini migranti. Molte opere che ospitiamo quest’anno si confrontano con questo tema, penso al lavoro di Santasangre o a Il palo della morte, la nostra ultima produzione, che debutterà venerdì 28 ottobre: tratto da un libro di Giuliano Santoro, parte da quanto successo a Tor Pignattara (un quartiere di Roma) con il ragazzo pakistano ucciso a calci da un minorenne italiano per fare un ragionamento più ampio sulle migrazioni.
Quale occasione offre un festival che si propone come opera stessa?
Il festival lo abbiamo sempre immaginato come un grande spettacolo, un organismo complesso con tante braccia. Per Margine Operativo è una grande occasione di relazione e scambio con altri artisti; ci sono molte anteprime, prime, studi; questo implica un pensiero comune, un dialogo con chi ospitiamo, che ci accompagna nei mesi precedenti: un processo di creazione che diventa così condiviso e che accoglie la sperimentazione. Tutto ciò permette al festival una certa dinamicità, e agli artisti di poter sperimentare e ricevere dei feedback. Quest’anno, a proposito di condivisione e ragionamento condiviso, abbiamo un blog curato interamente da un gruppo di ragazzi che ha partecipato a Dominio Pubblico – La città agli Under 25: spettatori e blogger attivi che gestiscono il racconto del festival scegliendo loro la linea editoriale.
Per quanto riguarda il programma anche in questa sedicesima edizione proponiamo format molto diversi, dai site specific come quelli di Olivia Giovannini e di Sara Marasso & Stefano Risso ai live painting di Rita Petruccioli e Lucamaleonte, dai concerti di Sandro Joeux e di Le Cardamomò e la performance musicale di Francesco Leineri ai reading performativi creati per il festival da Nano Egidio e da Bartolini / Baronio. Presentiamo debutti, anteprime come il primo studio del nuovo spettacolo di danza di C&C, e spettacoli già presentati a Roma in altri contesti, come Albania casa mia di Aleksandros Memetaj scelto (anche se già visto) perché affronta in modo originale il tema dei “confini”.
Il “nomadismo” e la vocazione di attraversamento del territorio è stata sempre una caratteristica fondante. Quest’anno in programma ci sono anche spettacoli meno “nomadi”, che hanno già attraversato le stagioni teatrali romane. È una scelta frutto di un riposizionamento o è dovuta ad altre problematiche?
In ogni edizione abbiamo sempre intrecciato performance in spazi urbani con momenti invece dedicati a spettacoli teatrali più strutturati. Sicuramente la parte che si narrava di più e che colpiva era quella più urbana, però non c’è mai stata solo quella. Il cambiamento sensibile di quest’anno è una scelta in parte nostra in parte determinata dalla fatica che stiamo affrontando noi e chi nella città di Roma si trovi a organizzare eventi culturali. Attraversamenti Multipli ha un finanziamento pubblico, ed è felice di averlo; il problema è che a Roma in questo momento c’è un irrigidimento incredibile sulla normativa per la sicurezza, con una burocratizzazione eccessiva che fa sì che diventi difficilissimo riuscire a lavorare in location particolari. Paradossalmente mentre da una parte viene premiato e richiesto il lavoro in spazi particolari e periferici, contemporaneamente vengono alzate delle montagne burocratiche insormontabili per avere tutti i permessi che vengono chiesti per avere l’agibilità per attività di pubblico spettacolo. Lavorare con l’urbano sta diventando incredibilmente faticoso, manca una normativa che capisca le differenze tra gli eventi, ad esempio tra un concerto del primo maggio a piazza San Giovanni e una performance di danza urbana che non monta nessun supporto, utilizza una strada e basta: non esiste una normativa che ne differenzi la richiesta burocratica in base alla grandezza e all’impatto dell’evento.
Dunque una burocratizzazione che va a sommarsi a contributi di Roma Capitale sempre più difficili da gestire, come ad esempio il passaggio da finanziamento a contributo da liquidare a rendicontazione avvenuta.
Attraversamenti Multipli è finanziato da Roma Capitale come festival di qualità, per i quali il contributo – con una percentuale ferma al 25% – è stato tagliato quest’anno complessivamente di 250 mila euro. A fronte di economie molto ridotte per tutti rispetto agli anni precedenti – per coloro che sono riusciti a prendere il finanziamento, perché molti altri sono rimasti esclusi – c’è stata una richiesta spropositata di produzione di “carte burocratiche”. Una grossa difficoltà per la macchina organizzativa, affrontabile sì da organizzazioni complesse e stabili, da aziende, ma non da piccole realtà per quanto dinamiche e storiche possano essere.
Il pubblico continua comunque a reagire; come sono cambiati in questi anni gli sguardi di chi partecipa al festival?
Anche quest’anno siamo contenti perché il festival sta continuando a crescere, e questo è l’obiettivo per il quale lavoriamo. Abbiamo sempre cercato di intercettare pubblici diversi anche a livello generazionale. Rispetto alle azioni urbane, da parte del pubblico “casuale”, non teatrale in senso stretto, gli sguardi sono cambiati: c’è più distanza dovuta alla minor abitudine a incontrare azioni artistiche e questa minor abitudine – che chiaramente è causata dal ragionamento che facevamo prima – crea una minore disponibilità: ci si ferma, si osserva, ma si resta un po’ più lontani. Oggi c’è bisogno di più tempo per creare empatia, e questo è un cambiamento; per esempio l’anno passato abbiamo avuto la possibilità di fare delle piccole residenze urbane, con dei workshop negli spazi dove poi si creava la performance, e questo dava vita una dinamica molto interessante. Però ciò era possibile grazie a un lavoro di quattro, cinque giorni che permetteva l’avvicinamento del pubblico e l’insorgere di una curiosità. In questo momento bisogna ricreare una tessitura artistica sul lavoro urbano, c’è bisogno di più tempo, ma per avere un tempo bisogna avere risorse e disponibilità degli spazi. Siamo convinti che questa città abbia bisogno di spazi e di azioni artistiche in luoghi urbani perché tutto ciò crea coesione sociale, cultura meticcia, ed è anche, forse, un antidoto al razzismo.
Luca Lòtano