Simone Carella muore. Artista e promotore culturale. Ha fatto diventare Roma una fabbrica di talenti.
Scrivere di. Certe volte non si può, è impedito dal cuore e dall’emozione che si porta il conoscere. l’aver conosciuto. E allora ci sono quelle storie fatte di persone di cui non si può scrivere. Sono tuttavia, queste, le persone a cui si può scrivere, come una lettera da infilare in una bottiglia che tanto il mare non perde, ma nasconde. E in caso ruba, pensieri, parole, opere. Fino pure alle omissioni. Tante, troppe, quando si scrive a qualcuno.
Dentro quella lettera c’è la storia di Simone Carella, che non c’è più.
Ma questa non è una pipa. Figuriamoci un necrologio.
Su, siamo seri, non l’avrebbe mai voluto un necrologio.
È questo un tentativo rivoltoso di dire qualcosa oltre la morte.
E non si tratta di vita eterna.
Ma di vita nostra.
Simone Carella è stato un sacco di cose – artista e promotore, dal Teatro Dioniso al Beat ‘72, da Bene a de Berardinis passando per i poeti di Castelporziano – tante che adesso a raccontarle ci vorrebbe Wikipedia, se solo un’enciclopedia – la lapide di ogni artista – sapesse cogliere il fiato, le occasioni, le inadempienze all’ordine costituito che fanno dell’arte il motore di ogni rivoluzione. E Simone ha fatto di più, ha fatto rivoluzione anche della rivoluzione, l’ha ribaltata, come amava rispondere a chi gli chiedesse da dove cominciare… «E da dove, ma dalla fine, ovviamente!» Sempre controcorrente, renitente a qualunque briglia di potere, Carella ha fatto l’artista e come tale alla sua vita non ha posto limiti, l’ha trattata come un’opera e c’è riuscito proprio perché presto, all’arte come status symbol, si è sottratto.
Parole le mie, scomposte, di una corrispondenza sentimentale. Da un Simone all’altro. Quello che resta a quello che va via. Il compito di uscire fuori dall’emozione e capire cos’è che rimane, insieme a quello che se ne va. Ricordo di un poeta, Franco Fortini in Composita Solvantur, che traccia con il dito il volto di un amico scomparso, lo conosceva, si vedevano spesso; eppure gli pare che soltanto lì, nel riquadro di un addio, finalmente lo riconosce. Certe cose, si sanno sempre dopo. E in questo dopo c’è scritto che questa città è viva di una morte recente, perché chiunque sia passato per il teatro a Roma ha incontrato il suo sguardo, la sua curiosità, il rintocco di un’accoglienza irriverente. Perché oggi, quel giorno in cui chi scrive non ci riesce per l’eccesso di messaggi commenti e telefonate, quella città morente a colpi di algoritmi da un lato e indifferenza dall’altro si mostra sempre più comunità, si stringe attorno al suo cavaliere pieno di macchie, guida di una rivolta già fallita, come sempre è la poesia. Che dell’indifferenza del potere, fa un potere.
In cima a ogni ricordo, si scriva: a Simone, artista senza patria, capace di crearne una a mille altri, che ha preso il canone e l’ha mutato in cenere, da cui far crescere una pianta d’alto fusto. Quella pianta si stringe e si ritrova in quello che per sempre è un sottobosco. Dove crescono le primizie selvatiche e il muschio sulla pietra, le ninfe e i titani, la notte e il firmamento, le rivoluzioni e le opere d’arte.
Simone Nebbia
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