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Caroline Baglioni. Vite di altra misura

Caroline Baglioni debutta con Gianni per il Premio Scenario al Teatro Litta di Milano. Recensione

foto fabrizio Corvi
foto fabrizio Corvi

Dentro ogni scarpa, c’è un cammino. E quindi una storia da raccontare. E però le scarpe vanno a coppia, si suppongono uguali, della stessa misura, dello stesso stile e colore. Eppure ci sono storie che non sono uguali per niente, passate per le epoche del mondo come scarabocchi trasversali nelle pagine ordinate delle vite altrui, fiorite e sfiorite nello spazio di un tratto improvviso, un attimo prima e un attimo dopo che la penna abbia smesso di rilasciare inchiostro. Sono gli uomini invisibili, rimasti impigliati in un discorso cominciato anni prima e che nessuno ha avuto la pazienza di ascoltare fino in fondo, uomini ai margini di una società autoriflettente, nascosti in ogni quartiere di ogni città si concedono per debolezza e frammenti, riconoscono il mondo senza che esso abbia cura di riconoscere, di loro, più che un corpo. Quando è troppo tardi.

E allora succede che una giovane donna conosca la storia, voglia mettere i piedi in scarpe che non sono le sue. Se ne carica quante ne può e le trascina a fatica fino al centro di una scena, al centro di un racconto. E sarà esso, il racconto, da calzare. Caroline Baglioni – al debutto per il Premio Scenario al Teatro Litta di Milano, vincitrice della sezione per Ustica – se lo porta addosso da molto tempo questo abito suo ma di un’altra taglia, dalla metà degli anni Ottanta per essere precisi, l’epoca in cui Gianni lasciava registrazioni delle sue parole, apparentemente senza motivo di trasmissione, componendo però il suo personale “nastro di Krapp” e iniziando un dialogo con chi avrebbe saputo, un giorno, curarsi di quell’ascolto. Si può dialogare anche nel tempo e il teatro permette di agire quel dialogo conservato da un altro supporto; si può quindi affondare non nella semplice memoria, ma nel tormento di un tempo precedente che ogni cosa, di sé, ha preceduto, si può dunque disfare un brogliaccio già redatto perché l’evocazione mostri un nuovo filo da tirare. Si può amare, nel tempo, odiando il tempo stesso che separa.

Stefano Vaja
Stefano Vaja

Abbandona le scarpe, la giovane donna, in quella che diventerà la sua stanza; ne calza un paio, diseguali, con cui raggiungere l’altra stanza, l’altro corpo: Gianni. Le prime parole escono di bocca insieme al fumo di un’inesauribile sigaretta, assottigliate da una postura asimmetrica e affaticata; con lo sguardo cerca fuori dalla scena, di lato, come se ci fosse qualcosa o qualcuno in grado di fargli da interprete, mettere in fila i pensieri e consegnarli a un ascolto fluido. Ma non c’è nessuno, è solo Gianni che non narra la propria solitudine ma la mostra con disarmata dolcezza, è sola in scena Caroline Baglioni che continua a cambiare scarpe non trovando mai quella giusta, come un tragico presagio si aggira nella vita di Gianni, nelle sue paure e nelle avversioni, nell’ossessione per le donne, per l’amore cui non si sente in alcun modo adeguato, nella passione per certe musiche affidate a un giradischi, che per un po’ sembrano acquietare la sua necessità di vita, compensare lo spazio di un’assenza inguaribile.

Caroline Baglioni si carica sulle spalle i frammenti di un discorso amoroso, proprio dilatando la mancanza dell’amore. Li sostiene in virtù di una qualità d’attrice cristallina, esperta nel costruire una partitura di gesti mai casuali, intrecciati alla parola con abilità e coscienza autoriale di ottime prospettive. Avrebbe certo bisogno di calibrare meglio il portato drammaturgico di cui dispone – e non le mancherà di ripensarne un equilibrio – ma la stessa aderenza emotiva che rischia di sabotarla è in verità ciò che ne determina lo spessore e l’originalità.

Calza ognuna delle scarpe, nessuna le va bene e per questo ognuna è quella giusta. L’asimmetria di Gianni passa con eleganza e rigore sul suo corpo slanciato, perché se la società dei modelli produce in sé stessa le proprie nemesi, l’antimodello incapace di restare nei contorni di una forma offre invece un concetto di forma totalmente fuori canone, fuori realtà, che quindi non interpreta, ma ricrea da principio. Ché poi in fondo non sono le scarpe, ma i piedi, quelli da guardare.

Simone Nebbia

Teatro Litta, Milano – Novembre 2015

GIANNI
ispirato alla voce di Gianni Pampanini
di e con Caroline Baglioni
produzione La società dello spettacolo

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Simone Nebbia
Simone Nebbia
Professore di scuola media e scrittore. Animatore di Teatro e Critica fin dai primi mesi, collabora con Radio Onda Rossa e ha fatto parte parte della redazione de "I Quaderni del Teatro di Roma", periodico mensile diretto da Attilio Scarpellini. Nel 2013 è co-autore del volume "Il declino del teatro di regia" (Editoria & Spettacolo, di Franco Cordelli, a cura di Andrea Cortellessa); ha collaborato con il programma di "Rai Scuola Terza Pagina". Uscito a dicembre 2013 per l'editore Titivillus il volume "Teatro Studio Krypton. Trent'anni di solitudine". Suoi testi sono apparsi su numerosi periodici e raccolte saggistiche. È, quando può, un cantautore. Nel 2021 ha pubblicato il romanzo Rosso Antico (Giulio Perrone Editore)

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