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Divorati dalla Storia. Binasco nel Porcile di Pasolini

Debutta a Spoleto 58 Porcile di Pier Paolo Pasolini diretto da Valerio Binasco. Recensione

porcile binasco
foto di ML Antonelli/AGF

Qualche mese fa ci era capitato di assistere a una messinscena di Hotel Belvedere di Ödön von Horváth firmata dal direttore del Teatro Metastasio Stabile della Toscana (oggi un TRIC) Paolo Magelli. Si trattava di un lavoro pulito, intelligente, forte di un affilato senso della tensione che, pur in una scena tutto sommato statica, riusciva a costruire un climax ascendente evidenziando contrasti e presagi all’interno di un tempo dell’azione volutamente scarnificato da riferimenti reali. Nonostante le precise indicazioni storico-geografiche, infatti, von Horváth ricreava un desolato paesaggio interiore in cui la Storia e la sua memoria prendevano posto sempre un istante dopo l’azione, brutalmente umana, dei personaggi. Perché ci troviamo di nuovo a parlare di quello spettacolo? Perché l’atteggiamento verso la Storia e per certi versi l’impostazione educata e al contempo testarda della regia tornano, con meno successo, nella versione di Porcile di Pier Paolo Pasolini firmata da Valerio Binasco, visto al 58esimo Festival dei Due Mondi di Spoleto nello splendido spazio di San Simone.

porcile binasco
foto di Luca Del Pia

Con il suo scricchiolare, gocciolare e soffiare umido sullo squittio di pipistrelli appesi chissà dove questa chiesa diroccata, cadente e decadente, si fa cornice perfetta per ospitare le eresie del nostro osannato poeta nazionale. Nel quarantesimo anniversario della sua violenta scomparsa, ma in fondo senza aver mai smesso di farlo, il fantasma di Pasolini serpeggia tra le dichiarazioni di lotta della generazione che lo ha seguito (la nostra) e, nel teatro, tra programmi di sala, stagioni di festival e tavoli di convegno. Al di là del gusto tutto italiano di condurre in processione le statue giù fino nel fiume, questo ci ricorda – ed è materia di questo testo – come la storia, per tutti e non solo per noi, si ripeta. Costruita come una prorompente eppure rigorosa parabola millenarista, la vicenda di Porcile si ambienta nella Germania degli anni Sessanta e ha la vita lunga come quella del protagonista Julian (Francesco Borchi), giovane intellettuale depresso che si barrica nel proprio ego e giocherella, sadico, con l’amore incondizionato di Ida (Elisa Cecilia Langone). Finirà paralizzato da una sorta di esaurimento nervoso, al risveglio dal quale sarà come essersi ingoiato il tempo di mezza vita. I suoi genitori (Mauro Malinverno e Alvia Reale) sono simulacri del dio denaro sopravvissuti agli orrori (almeno economici) della guerra, in totale distacco affettivo dal figlio e ora alle prese con una fusione quasi forzata con l’industriale ed ex macellaio nazista Herdhitze (Fulvio Cauteruccio), che negozia il baratto offrendosi in cambio di coprire uno scandalo.

porcile binasco
foto di ML Antonelli/AGF

Il confronto tra le generazioni, schiaffate da Pasolini sulla parete di uno specchio che dovrebbe mostrarne colpe e impurità, si risolve in una sorta di trittico di reazioni, tutte cieche, tutte gelide come la morte: la terribile decisione di Julian, la stolida indifferenza dei genitori, le cupe (ed estremamente contemporanee) indifferenza e omertà di Herdhtize. Quale che fosse la forma, comune agli scritti di Pasolini era il tentativo di mostrare una visione del mondo presente così ampia da allargare le maglie del futuro, invitando le coscienze a compiere da sole la mossa del trapasso. In Porcile la lingua stessa appare tirata allo stremo, resiste sotto al parlato (così diverso nei ritmi tra la schiera dei superstiti alle due guerre e quella degli idioti – come Ida – che sembrano aver ereditato il mondo) una buia imitazione della retorica evangelica, quasi uno schernire l’idea che possa, dopotutto, esistere una salvezza.
Su un pavimento coperto da un mosaico di piastrelle rosa salmone, il palco ospita poltrone e tavoli spinti su ruote, il fondale disegna l’ombra di colonne squadrate e le sagome di alberi nudi. In questo spazio si muove un gruppo di attori che pare tagliato con un’accetta non molto affilata, si intuiscono toni appoggiati a una musica approssimativa, che non sempre rende giustizia al testo (pensiamo alla cantilena di Borchi/Julian, di certo omaggio all’autore stesso ma che copre ogni preziosa fioritura della nostra lingua) e movenze da marionette solo in parte giustificate da una regia che, in definitiva, si staglia sul fondo, senza offrire con generosità allo spettatore il proprio segno distintivo.

Ci si domanda se Valerio Binasco non avesse immaginato nei suoi taccuini un progetto diverso da quello che i mezzi di questa doppia commissione (che unisce Metastasio a Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia) gli hanno concesso. Il «Maestro» (così gli si rivolge Magelli nel programma di sala) ha svolto con egregia pazienza e molto amore per il dettaglio il proprio compito, ma ancora crediamo che il lavoro di messinscena (parlare di regia ci costa una fatica terminologica che rischia di omologare manciate di opposti) debba affermare la responsabilità di una visione, in questo caso ridotta a una buona, a tratti ottima, orchestrazione degli elementi.
Più che le invenzioni sceniche su di esse o una lezione lunga quarant’anni, dunque, dentro ci restano le parole di Pasolini, la loro natura umana e diabolica insieme. E scendendo gli spalti, bordeggiando il palco, le piastrelle che ricoprono il pavimento mostrano lo strato di nuda terra che brulica sotto, lasciandoci immaginare i vermi.

Sergio Lo Gatto
Twitter @silencio1982

visto alla Chiesa di San Simone, Spoleto – giugno 2015

PORCILE
di Pier Paolo Pasolini
regia Valerio Binasco
scene Lorenzo Banci
costumi Sandra Cardini
musiche Arturo Annecchino
luci Roberto Innocenti
personaggi e interpreti
Padre Mauro Malinverno
Madre Alvia Reale
Julian Francesco Borchi
Ida Elisa Cecilia Langone
Hans-Guenther Franco Ravera
Herdhitze Fulvio Cauteruccio
Maracchione Fabio Mascagni
Servitore di casa Pietro d’Elia
coproduzione Teatro Metastasio Stabile della Toscana / Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia con la collaborazione di Spoleto58 Festival dei 2Mondi

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Sergio Lo Gatto
Sergio Lo Gatto
Sergio Lo Gatto è giornalista, critico teatrale e ricercatore. È stato consulente alla direzione artistica per Emilia Romagna Teatro ERT Teatro Nazionale dal 2019 al 2022. Attualmente è ricercatore presso l'Università degli Studi Link di Roma. Insegna anche all'Alma Mater Studiorum Università di Bologna, alla Sapienza Università di Roma e al Master di Critica giornalistica dell'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica "Silvio d'Amico" di Roma. Collabora alle attività culturali del Teatro di Roma Teatro Nazionale. Si occupa di arti performative su Teatro e Critica e collabora con La Falena. Ha fatto parte della redazione del mensile Quaderni del Teatro di Roma, ha scritto per Il Fatto Quotidiano e Pubblico Giornale, ha collaborato con Hystrio (IT), Critical Stages (Internazionale), Tanz (DE), collabora con il settimanale Left, con Plays International & Europe (UK) e Exeunt Magazine (UK). Ha collaborato nelle attività culturali e di formazione del Teatro di Roma, partecipato a diversi progetti europei di networking e mobilità sulla critica delle arti performative, è co-fondatore del progetto transnazionale di scrittura collettiva WritingShop. Ha partecipato al progetto triennale Conflict Zones promosso dall'Union des Théâtres de l'Europe, dove cura la rivista online Conflict Zones Reviews. Insieme a Debora Pietrobono, è curatore della collana LINEA per Luca Sossella Editore e ERT. Tra le pubblicazioni, ha firmato Abitare la battaglia. Critica teatrale e comunità virtuali (Bulzoni Editore, 2022); con Matteo Antonaci ha curato il volume Iperscene 3 (Editoria&Spettacolo, 2018), con Graziano Graziani La scena contemporanea a Roma (Provincia di Roma, 2013). [photo credit: Jennifer Ressel]

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