Teatr Zar. Dalla Georgia a Fabbrica Europa 2015 con Armine, sister. Recensione
È vuota e buia la Leopolda giovedì 7 maggio, fatta eccezione per la luce debole che illumina la foresta di carta di Cristina Caprioli. Trees è un’installazione da attraversare, per creare ombre e spiare sagome. Ma, in apertura di festival, gli alberi si fanno immobili, mentre la stazione si fa muta per accogliere un canto che arriva da lontano. In uno degli spazi laterali, più stretto e raccolto, si cantano gesta eroiche e avventure antiche, battaglie vinte e amori perduti. Un piccolo palco accoglie Dengbej Kazo, Vahan Kerovpyan e Murat Içlinalca, sedute di legno ospitano il pubblico, che si ferma in ascolto. Due oud, un tamburo e voci maschili per Suoni dal Kurdistan, in apertura della XXII edizione di Fabbrica Europa (leggi l’articolo di Alessandro Iachino).
Accompagnato da due musicisti che lo sostengono anche in forma di coro, Dengbej Kazo è un moderno poeta-cantore impegnato oggi a recuperare una tradizione che il governo turco, tramite l’oppressione linguistica, rischiava di seppellire. Sentire oggi i kilams non è solo ascoltare storie antiche sull’uomo, non è solo immaginare gli dengbej spostarsi di villaggio in villaggio cantando di eroi e di amanti, di guerre e di tribù, ma è anche percepire, forte, il sentimento d’appartenenza di un gruppo etnico privo di unità nazionale.
Ed è un gruppo multinazionale Teatr Zar, formatosi tra il 1999 e il 2003 durante delle spedizioni di ricerca in Georgia. Tradizioni musicali antiche sono alla base del lavoro della compagnia, com’è chiaro anche dallo spettacolo presentato l’8 maggio, che vuole dare però un segnale di cambiamento. Più una variazione che una rottura, perché l’indagine sul canto polifonico, che ha accompagnato Teatr Zar per dieci anni, è sempre presente. Armine, sister è un lavoro innanzitutto sonoro. Un canto monodico, eseguito da cantori di diversa provenienza, è già lì mentre le tende si scostano per accogliere il pubblico, invade lo spazio quando ci si accomoda, prendendo ognuno un punto di vista differente, unico ma parziale. Perché lo spettacolo è concepito in modo che la visione sia imperfetta, mai univoca, mai completa. Frammentata è la composizione, frammentata vuole essere la restituzione dello sterminio, evocato e non narrato. La memoria del genocidio degli armeni ci arriva tramite due parole, quelle del titolo, l’inizio di una lettera con un indirizzo illeggibile. Una lettera redatta su un tavolino orfano, sotto una luce debole, l’incipit di uno scritto mai arrivato a destinazione. E sono le uniche parole – mai pronunciate – di un lavoro costruito su sequenze fisiche e nutrito di immagini, poche, ripetute.
L’emblema della distruzione è la foto di Magdalena Madra che campeggia nello spazio buio della Leopolda, sono colonne mozzate nella chiesa di Sant Theotokos in Anatolia. E pilastri si stagliano in scena, non fissi, ma mobili, divelti dalla loro posizione originaria, prima abbattuti poi tirati su con corde. Il ricordo della demolizione è in una porta che non chiude più su nessuna casa, pezzo di legno sul quale si accascia più volte un corpo di donna sfinito. E così ci appaiono le figure femminili – le vittime – svuotate dalle torture, aggrappate a letti privi di materassi, rimasti solo reti, rimasti solo ferro. Mogli senza mariti da abbracciare, madri senza bambini da allattare. Straziate da uomini che incarnano l’umana ferocia. E così sono le figure maschili – i carnefici – incitanti, torturanti, violente. Armine, sister è un lavoro carnale, a tratti disturbante, nel quale è evidente la lezione grotowskiana, cui il Teatr Zar, con base a Wroclaw, in Polonia, attinge. La reiterazione messa in atto dai performer, guidati da Jarosław Fret, mai abitua alla brutalità, mai lascia –fisicamente – indifferenti. E, certo, in alcuni momenti ci chiediamo se non sia troppo, all’ennesimo colpo inferto, all’ennesima percossa subita. Ma, forse, la restituzione della violenza, il continuo battere, incitare, gemere, insieme alle immagini ripetute e al canto, non sono altro che un modo per colmare un silenzio, quello sul genocidio, dell’Europa intera. A noi, sopra ogni cosa, più del sangue del melograno che scorre in rivoli, più degli stracci, laceri come brandelli di vita, restano i grumi di sabbia che scorrono copiosi e in qualche momento ci arrivano addosso. È la sabbia del deserto siriano di Der-Es-Zor, teatro delle deportazioni, delle impiccagioni, delle marce della morte. Alla fine, quando il canto si è spento e l’azione è cessata, due donne si trascinano straziate fuori della scena, mentre a noi non resta che defluire, in un misto di inquietudine e vuotezza, nello spazio buio della Leopolda, dove ci aspetta, ancora, la foto di Magdalena Madra, dove ci viene chiesto un ritratto di noi, rubato da una polaroid, da unire a un mosaico di partecipazione e di memorie. E dove ci attende, di nuovo, il bosco bianco di Cristina Caprioli, che ci accompagna verso l’uscita, sciogliendo, almeno in parte, la tensione accumulata.
Rossella Porcheddu
Twitter @ross_porcheddu
Leggi anche l’articolo di Sergio Lo Gatto
TEATR ZAR (PL)
ARMINE, SISTER
Drammaturgia musicale, installazione, direzione: Jarosław Fret
Performer/musicisti: Davit Baroyan, Ditte Berkeley, Przemysław Błaszczak, Alessandro Curti, Jarosław Fret, Murat Içlinalça, Dengbej Kazo, Aram Kerovpyan, Vahan Kerovpyan, Kamila Klamut, Aleksandra Kotecka, Simona Sala, Orest Sharak, Mahsa Vahdat, Marjan Vahdat, Tomasz Wierzbowski
Laboratorio permanente di canto modale diretto da: Aram Kerovpyan
Collaborazione vocale: Virginia Pattie Kerovpyan
Scenografia realizzata da un team diretto da Piotr Jacyk: Maciej Mądry, Krzysztof Nawój, Paweł Nowak, Bartosz Radziszewski, Andrzej Walada – Luci: Maciej Mądry
Coordinazione del progetto: Magdalena Mądra – tour manager: Joanna Gdowska
Premiere: 28 novembre 2013, Studio Na Grobli, Wrocław (Polonia)
Con il supporto del Ministero della Cultura e del Patrimonio Nazionale della Repubblica Polacca