Teatrosofia esplora il modo in cui i filosofi antichi guardavano al teatro
In questa nuova rubrica, curata dal nostro redattore Enrico Piergiacomi – dottorando di ricerca in filosofia antica all’Università degli Studi di Trento – ci avventuriamo alla scoperta dei collegamenti tra filosofia antica e teatro. Ogni uscita presenta un tema specifico, attraversato da un ragionamento che collega la storia del pensiero al teatro moderno.
Tespi cominciava proprio allora a modificare la tragedia e l’iniziativa attirava la gente per la novità, anche se non si era ancora arrivati a un concorso teatrale. Solone, che per natura amava ascoltare e imparare, e che nella vecchiaia ancor più si abbandonava ai passatempi, allo svago e, per Zeus, al bere e alla musica, andò a vedere Tespi il quale, secondo l’uso degli antichi, recitava egli stesso i suoi drammi. Dopo lo spettacolo, Solone gli rivolse la parola e gli domandò se non si vergognava a raccontare tali fandonie davanti a tanta gente. Tespi replicò che non c’era niente di male a dire e a fare tali cose per gioco, al che Solone colpì violentemente la terra con l’asta e disse: «Presto, però, se tributeremo tale lode e onore a questo gioco, ce lo ritroveremo nei nostri contratti».*
Gli studiosi si pronunciano perlopiù negativamente sull’attendibilità storica dell’aneddoto. In effetti, oltre a creare anomalie cronologiche, esso pare presupporre l’idea che la poesia sia una forma di menzogna delineata nella Repubblica di Platone, del quale Plutarco era intelligente continuatore. Se però lo si assume come vero, è possibile compiere una riflessione forse produttiva sullo strano conflitto tra teatro e potere.
È facile capire la reazione violenta di Solone. I suoi componimenti poetici più una testimonianza di Apollodoro attestano come egli invitasse gli uomini a non mentire e a riconoscere per tempo le bugie. Dietro di esse si può celare un tiranno quale Pisistrato, che con azioni spettacolari convinse gli Ateniesi a consegnarli il governo della città. Solone vedeva dunque in Tespi solo un potenziale rischio per la stabilità e la libertà di Atene, che aveva talmente a cuore al punto da arrivare a salvarla ricorrendo lui stesso a una “nobile bugia”. Un altro aneddoto raccontato da Plutarco è del resto quello del legislatore che si finse pazzo per poter recitare impunemente un’elegia, con cui esortò gli Ateniesi a riconquistare Salamina occupata dai Megaresi.
Insomma, il caso di Solone è quello di un legislatore, insolitamente illuminato, in grado di riconoscere del teatro solo l’uso spettacolare applicabile in politica e a cui sfugge l’essenziale: la dimensione ludica e vitale, che Tespi aveva ragione a ritenere innocua per la stabilità di una città. Il “gioco” da egli invocato non ha dopo tutto alcuna intenzione di sottrarre la libertà degli spettatori, al contrario della tirannide che finge buone intenzioni.
Estendendo l’aneddoto particolare sul piano generale, è forse possibile concludere che esiste un’incapacità del costituzionale nell’uomo di potere a percepire il teatro. Le sue preoccupazioni sono tante e tali da frapporre uno schermo che lo mantiene sempre sulla superficie. Da ciò segue anche la massima che, più un uomo è intellettualmente e moralmente vergine, ossia senza pregiudizi e attese di utilità pratica, più risulta capace di essere attraversato dalle misteriose forze che solo il teatro riesce a evocare.
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*Quando poi Pisistrato, feritosi da sé, venne nella piazza facendosi portare su un carro, e istigava il popolo, dicendo che era stato vittima di un attentato da parte dei suoi avversari a causa della sua posizione politica, molti si associavano al suo sdegno e rumoreggiavano. Solone, invece, avvicinatosi e fermatosi accanto a lui, gli disse: «Fai male, o figlio di Ippocrate, a recitare la parte dell’Odisseo di Omero: lui infatti si ferì per ingannare i nemici, e tu fai lo stesso, ma per trarre in inganno i tuoi concittadini» (Plutarco, Vita di Solone, §§ 29-30; trad. di M. Manfredini, salvo la parte evidenziata in corsivo, che è tradotta da me)
Quando poi gli Ateniesi si stancarono di condurre una guerra lunga e difficile contro i Megaresi per l’isola di Salamina, e vietarono con una legge, pena la morte, di proporre ancora a voce o per iscritto che la città rivendicasse Salamina, Solone, insofferente di quel disonore e vedendo che molti dei giovani volevano un avvio per la guerra, ma a causa della legge non avevano il coraggio di prendere essi stessi l’iniziativa, finse di essere uscito di senno, e dalla sua casa si diffuse per la città la voce che era impazzito. Poi compose in segreto un’elegia, la imparò così da poterla recitare a memoria, e improvvisamente si precipitò nella piazza, con un berrettino in testa. Accorse una grande folla ed egli, salito sulla pietra dell’araldo, intonò l’elegia di cui questo è l’inizio: «Io stesso vengo araldo dall’amata Salamina, ed ho composto un canto, ornamento di parole, anziché un discorso». Questa poesia si intitola Salamina ed è di 100 versi, composti con molta grazia (Plutarco, Vita di Solone, § 8; trad. di M. Manfredini)
Se mali avete sofferto per viltà vostra, / non imputate questo destino agli dèi. / Voi li alimentaste e qual preda vi offriste, / ed ora godete la trista schiavitù. / Ciascuno di voi calca le orme della volpe, / ma a voi tutti insieme è mente leggera. / Alla lingua, alle parole d’un uomo astuto badate, / non alle opere che egli compie (Poesia di Solone, in Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, libro I, § 52; trad. di Marcello Gigante)
Agli uomini – come riferisce Apollodoro nel libro Delle scuole filosofiche – [Solone] diede questi consigli: «Ritieni l’onestà e la probità del carattere più fedeli del giuramento. Non mentire. Attendi alle cose nobili e serie. Non procurarti amici in fretta, ma non respingere quelli che una volta avrai acquistati. Comanda dopo aver appreso ad obbedire. Delle decisioni prendi non quelle che siano dolcissime, ma le ottime. La mente sia la tua guida. Non frequentare i malvagi. Onora gli dèi, venera i genitori». (…) Delle canzoni che erano cantate nei conviti, questa è sua: «Guarda al fondo di ogni uomo, / bada a che non ti si rivolga con ilare volto / con odio nascosto nel cuore, / e la sua lingua duplice / risuoni dall’animo nero» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, libro I, §§ 60-61)
[La traduzione di Manfredini si trova in Plutarco. Vita di Solone, Milano, Mondadori 1998. Mentre la resa dei passi di Diogene Laerzio con i versi di Solone sono di M. Gigante. La Vita dei filosofi di Diogene Laerzo è consultabile su Daphnet: http://www.daphnet.org/index_ita.html . I frammenti poetici di Solone sono tradotti in italiano da M. Fatuzzi (a cura di), Solone. Frammenti dell’opera poetica, Milano, Mondadori 2001]
Enrico Piergiacomi
Twitter @Democriteo
Un giorno vidi B. uscire da un centro d’accoglienza, circondato da flash giornalistici. Mise molta attenzione nel mostrare alle telecamere il suo volto rigato da vere lacrime, tralasciando quel naturale gesto che tutti noi prende quando sentiamo che gli occhi si bagnano, cioè asciugarli.
Ora il problema non è se le lacrime son vere o finte, quanto : qual’è l’uditorio al quale ci si rivolge?.
Se il “pubblico” non sa che stai mentendo, la lacrima vero-finta è una mala azione, se invece lo sa è la proposta di un gioco, che di per se è buona azione (a patto che non si intenda di barare).
Se si recita per chi non sa, non occorre esser neanche tanto bravi; solo un occhio esperto potrà smascherarti ( e non sarà creduto dai più!)
Naturalmente, io sto con Tespi.
Grazie.
(Sono sempre molto colpito da questa rubrica per la capacità di render concreto ciò che solitamente viene raccontato con una certa astrazione).
Claudio Morganti
Caro Claudio,
la tua è una precisazione importante. Infatti, è proprio la consapevolezza dell’uditorio che fa in modo che si crei il gioco partecipato con l’attore. Solone e Pisistrato erano stati davvero scambiati rispettivamente per un pazzo e per un uomo portato su un carro da una divinità, per cui non ci fu nulla di teatrale nei loro atti: solo un avvenimento spettacolare con una precisa direzione politica.
Con questo non voglio naturalmente dire che il teatro non sia politico, anzi. Per me non c’è nulla di più politico dell’evento teatrale, perché contribuisce al benessere degli uomini che hanno avuto la fortuna di assistervi o di crearlo. Intendo solo ipotizzare che, se è forse vero che ogni atto teatrale è politico, non è altrettanto vero l’inverso, ossia che ogni atto politico sia teatrale, quand’anche adotti procedure performative.
Immaginavo che tu stessi con Tespi. Non me ne voglia Solone, ma anch’io sto con lui. Un caro saluto,
Enrico.