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Intervista ad Andrea Brunello. La decisione e la necessità

Andrea Brunello ci parla delle pratiche e delle idee su cui si è basata la stagione PORTLANDOFF

 

Andrea brunello teatro spazio off trento
foto www.tralerocceeilcielo.it Monique Foto

Dal 25 ottobre 2013 al 4 aprile 2014 si è tenuta presso il Teatro Portland di Trento la stagione teatrale PORTLANDOFF, intitolata «La Bella Stagione». Il progetto prende il nome dalla collaborazione tra il Teatro Portland, diretto da Andrea Brunello e dalla Compagnia Arditodesìo che egli dirige, e il Teatro Spazio Off di Trento. La stagione si è rivelata estremamente ricca, con 35 repliche di 17 spettacoli diversi, allestiti da compagnie provenienti da tutta Italia. Abbiamo intervistato Andrea Brunello per farci raccontare cosa è successo dietro le quinte e  come il teatro sia legato a necessità di vita concrete.

Come è nata l’idea di voler allestire un’intera stagione con lo Spazio Off e in che modo vi siete organizzati per allestirla?

Da due anni circa abbiamo capito che le nostre strade si assomigliavano. Siamo due spazi indipendenti (la stagione passata del Teatro Portland è stata fatta anche grazie ad alcuni contributi pubblici, ma siamo uno spazio principalmente autofinanziato), abbiamo un’idea di teatro che si assomiglia e una chiara consapevolezza della complementarità dei nostri percorsi. Il Portland si occupa di teatro civile e di un teatro che racconti la contemporaneità attraverso una nuova drammaturgia; mentre lo Spazio Off si dedica a un teatro di avanguardia, a un teatro di ricerca, sotto tanti punti di vista.

Nella concreta organizzazione, lo Spazio Off si è configurato come uno spazio aperto alle residenze, dove le compagnie hanno stazionato per diverso tempo e sviluppato i loro lavori. Quindi, lo spazio non è stato più adibito durante l’anno all’allestimento di spettacoli: è stato piuttosto una fucina, una fabbrica, una factory se vogliamo. Mentre il Teatro Portland ha mantenuto la proposta artistica aperta al pubblico tenendo conto delle indicazioni dello Spazio Off.

D’altra parte, lo spazio Off ha compiuto un’altra operazione. Ha presentato il progetto 33 Trentini, che aveva l’idea di formare un gruppo di spettatori, attraverso la presenza di alcuni maestri che operano sia sulla scena che dietro le quinte [Serena Sinigaglia, Andrea Porcheddu, Armando Punzo e Massimo Paganelli, n.d.r.], che sono venuti a Trento per dare direttamente il loro contributo.

Questa collaborazione ha dato a Trento e a chi ha voluto seguire la stagione tanti stimoli. Abbiamo avuto una grande quantità di pubblico e ottenuto una riconoscibilità a livello nazionale. Siamo entrati a far parte di diversi circuiti e abbiamo scoperto che c’è una certa attenzione rispetto al Portland. Anche se piccolino e in grado di offrire solo spettacoli ai limiti della sostenibilità, io dovunque vada trovo che il Portland è conosciuto.

Questo risulta anche più interessante, se si pensa che avete lavorato quasi senza finanziamenti pubblici…

Allora, la struttura è senza finanziamento. I muri, l’affitto, le utenze li paghiamo noi, a differenza di altri spazi per cui il Comune affitta e poi dà in gestione. Il contributo dell’ente pubblico copre il 5% delle spese. Anni fa abbiamo fatto la scelta di essere indipendenti e di presentarci da privato come associazione culturale. Questo genera una grande libertà, nel senso che non dobbiamo rendere conto a nessuno. Allo stesso tempo, genera un grande impegno, perché dobbiamo impegnarci a trovare i finanziamenti.

Parliamo della stagione. Perché l’avete chiamata La Bella Stagione? Cosa significa quel «bella»? E con quali criteri pratici e seguendo quali principi artistici avete fatto la selezione degli spettacoli?

La Bella Stagione è stato un gioco di parole che abbiamo trovato. Innanzitutto, la stagione unisce quelle che erano le due stagioni precedenti, cioè Materiale non conforme e Trento Oltre, che erano le due stagioni tenute rispettivamente da Arditodesìo e dal Portland, nei tempi in cui lavoravamo col Santa Chiara. Tenendo poi anche conto della collaborazione con lo Spazio Off ci è sembrato giusto cambiare nome.

Abbiamo scelto di chiamarla “bella” perché noi siamo orgogliosi di quello che facciamo, lo rivendichiamo. E poi: la bella stagione è la primavera! È una stagione dove tutti si risvegliano, dove la vita riprende. E ci piacerebbe che il nostro teatro fosse questo, che possa essere uno stimolo per risvegliare il pensiero, l’interesse di chi viene.

Per quanto riguarda la linea di direzione artistica: per noi il teatro civile è il nostro filone vero. Ma cosa intendiamo con «teatro civile»? Il teatro civile è quel teatro fatto da artisti che hanno l’urgenza di stare in scena, hanno cose da dire e vogliono dirlo attraverso il teatro. Perché diventa civile questo? Perché evidentemente quando c’è questa urgenza tutto diventa vero, e se è vero ci parla della nostra vita. In un certo senso, teatro civile è tutto quel teatro fatto da persone che se non facessero questo starebbero male.

Mi sembra giusto dire che per la maggior parte i nostri spettacoli sono molto piccoli, che spesso hanno sulla scena solo un attore, una sedia e un faro piazzato. Ma avendo dietro una buona storia, sono risultati degli spettacoli interessanti e provvisti di energia, anima, vita.

Quanto ai criteri preferiamo credere che, se da una parte non vogliamo offendere il pubblico, dato che lo consideriamo come un organismo di grande intelligenza, dall’altra ci piace proporre lavori senza l’ansia di pensare «gli piacerà, non gli piacerà?». Partiamo dal presupposto che, se esistono quegli ingredienti di cui ho parlato prima, gli piacerà. Io ho visto e riconosco che il pubblico premia sempre l’urgenza, la vita, la creazione sulla scena, la necessità.

Quindi non mi pongo il problema «oddio, il mio pubblico, chissà cosa penserà!». Mi pongo il problema: «non voglio offenderlo», voglio proporgli delle cose che siano sempre della massima qualità. Si fa prestissimo ad offendere il pubblico. Vengono a vedere un lavoro e dicono: ma perché mi hai proposto questa cosa? E questo io non voglio che succeda.

Hai spesso accennato al fatto che il teatro ha a che fare con la necessità. Ma che cosa intendi? Seguendo l’intera stagione, ho notato che un filo rosso di molti degli spettacoli è il bisogno di riflettere sul male, sull’urgenza etica di affrontarlo, seguendo l’esempio di uomini che hanno persino dato la vita. Tu pensi che questa sia una delle necessità?

Io quando faccio teatro lo faccio perché ho personalmente il bisogno di riflettere su alcune cose. E parto dalle domande che mi pongo, come drammaturgo prima, come attore o regista poi, e infine nasce il testo. Tutti i miei ultimi lavori hanno così girato intorno al problema dell’esistenza umana, delle scelte che noi come esseri umani siamo chiamati a fare, del prenderci noi la responsabilità.

Questa  esigenza del mio lavoro teatrale poi la rovescio anche sul mio lavoro di direzione artistica. Quindi la risposta è sì. E il “filo” è una profonda riflessione su quello che è la nostra esistenza. Faccio due esempi concreti. Uno spettacolo molto bello come Zigulì di Teatrodilina andava a riflettere sul rapporto tra un padre e un figlio disabile. È chiaro che non è un discorso sulla disabilità, ma è un discorso sull’amore, sull’essere padre; è un discorso sull’essere necessari. Un discorso così è fondamentale, ed è fondamentale che ci sia un pubblico a cui dire ciò. Quando poi invito Christian di Domenico a raccontare con U Parrinu la storia di padre Pino Puglisi, è naturale che rifletta di nuovo sulla capacità che hanno alcuni di prendere delle decisioni, anche suicide, divenendone protagonisti. Ecco, se vogliamo vedere un filo è questo: tutti gli spettacoli che ospito hanno a che fare con persone che prendono delle decisioni, che diventano protagonisti.

Vedevamo tanto pubblico ritornare di settimana in settimana, vedevamo le persone tornare cariche del desiderio di sapere: e oggi, di che cosa parleremo? E finito lo spettacolo, molti si fermavano qui a parlarne. Perché la stagione ha previsto la bellissima opportunità di parlare dopo lo spettacolo con gli artisti, bevendo un bicchiere di vino assieme.

Ti chiederei di approfondire quest’ultimo punto, di spiegare quanto è importante interloquire con il pubblico. Perché credo che tu non voglia semplicemente trattenerlo per carpirne i gusti e manipolarlo alla prossima occasione, ma per altri ragioni…

Certo. Quando io studiavo teatro (abitavo a New York), poiché ero povero, veramente squattrinato, i soli teatri che potessi permettermi erano gli Off-Off Broadway. All’epoca, parliamo di vent’anni fa abbondanti, l’ingresso a questi teatri costava dieci dollari ed era spesso fatto in spazi veramente piccoli, angusti. Ma la forza di quel teatro lì era che tu poi potevi parlare con gli artisti. Erano spesso teatri senza camerini, chi aveva buona volontà (e io avevo buona volontà) si poteva fermare dopo a dare una mano a pulire, a sistemare. Mi è rimasto dentro, questo. Ho sempre pensato che la parte più preziosa del mio andare a teatro era il “dopo-spettacolo”, perché potevo approfondire, indagare. Io ero giovane e ammiravo questi attori, volevo essere come loro, mi ha molto arricchito poterli incontrare dopo gli spettacoli

Ecco, da sempre ho pensato che anche qui noi dovremmo creare quell’atmosfera. Infatti, penso che il Portland possa essere considerato un Off-Off di qualche cosa. Questo incontro con gli artisti è una necessità che nasce spontaneamente. «Spontaneamente» perché non è una cosa che noi diciamo «bisogna fare!». Mentre è una necessità perché tutti questi spettacoli sollevano domande, senza dare risposte, che diventano importanti per un pubblico attento, che pian piano si sta formando per provare a rispondere. Ma con chi è possibile farlo? Con gli artisti che vanno in scena con una necessità. Ecco che si chiude il cerchio.

In questa prospettiva rientrano anche le attività di workshop parallele?

Sì, assolutamente. Intanto, fare un workshop con gli artisti che vengono in stagione è una grande opportunità di crescita, perché si parla delle tematiche dello spettacolo. E poi offre l’occasione per condurre un approfondimento tecnico e tracciando un percorso nel bagaglio di esperienze tecniche o artistiche, che hanno imparato a travasare.

Come organizzerete la prossima stagione? Essa sarà sempre orientata in questa direzione?

È molto difficile dirlo. Il fatto di non avere pressocché finanziamenti pubblici non ci garantisce di poter permettere una nuova stagione, per il semplice motivo che il Teatro Portland vuole pagare un cachet alle compagnie esterne e chiede di venire con un incasso a percentuale solo alle compagnie che operando già sul territorio possono garantire un bacino di pubblico.

La stagione dovrà comunque seguire il filone iniziato quest’anno. È la nostra necessità, non possiamo immaginare una cosa diversa. Dobbiamo soltanto trovare il modo di renderla fattibile. Ti lascio con questo punto interrogativo, sperando che i nostri sforzi ci diano dei risultati.

Ti saluto chiedendo un’ultima cosa. C’è qualcosa che hai personalmente appreso di nuovo sul teatro attraverso questa stagione? Oppure, hai ricevuto delle conferme e/o delle smentite riguardo al tuo modo di lavorare?

Posso dire di sicuro di aver avuto la conferma che il teatro in Italia, soprattutto il teatro che vive nel sottosuolo e non è così visibile, è fatto comunque da persone molto sane, che hanno un entusiasmo enorme, che sono pronte a grandi sacrifici, che ci credono e che sono molto creative. Ho incontrato nella stagione tante belle persone: si può dire che ho fatto La Bella Stagione con le Belle Persone.

Ho anche la netta sensazione che ci sia molta umiltà. Le compagnie che abbiamo invitato sono tutte compagnie che sono in un percorso, che non si sentono arrivate. Questo per me è molto bello, mostra che in questi gruppi c’è un processo di crescita continua.

Posso quindi concludere questo: c’è un tessuto veramente sano di artisti che hanno tanta voglia di fare e che sono pronti a tanti sacrifici, che però deve trovare nei grandi enti un po’ di spazio. Se soltanto si riuscisse a scuotere il sistema quanto basta per permettere a queste realtà di uscire un pochino dal sottosuolo, ecco che il teatro avrebbe un rinnovamento profondo e, a mio parere, necessario.

Enrico Piergiacomi
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