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Pornografia. Ronconi e la letteratura di Gombrowicz

Recensione di Pornografia. Ronconi al Teatro Argentina con il romanzo di  Gombrowicz

 

pornografia ronconi recensione argentina
foto Luigi Laselva

«Dice così per non dire qualcos’altro; fa così per non fare qualcos’altro». Questa frase ricorre spesso nella versione teatrale di Pornografia messa a punto da Luca Ronconi a partire dal romanzo di Witold Gombrowicz, e proprio questa ricorrenza consegna da un lato una chiave di accesso al senso di molte scene, dall’altro compone un paradosso di sovrapposizione dei linguaggi e dei sottotesti che funziona esattamente come una trappola, che è poi la struttura narrativa di quest’opera complessa. Nella Polonia del 1943 – nel mezzo, dunque, dell’occupazione nazista, con già molto dolore alle spalle e molto ancora da scontare – i due attempati sconosciuti Witold e Federico si ritrovano ospiti nella casa di campagna del nobile Ippolito, a fare i conti con la propria stessa noia. L’arrugginirsi degli ideali di rivolta dei partigiani polacchi e il definirsi di una sorta di bolla temporale, che contiene al suo interno una squallida e nostalgica fino al grottesco oleografia della famiglia dell’ante-guerra, spingeranno i due adulti a esercitare la propria frustrazione in un gioco morboso: incapaci di accettare l’ipotesi che tra due corpi ancora giovani non scaturisca immediatamente la scintilla dell’attrazione sessuale, tessono trame per gettare il prestante ma ingenuo Carlo tra le braccia della minuta ma maliziosa Enrichetta, il cui imminente matrimonio con l’ingessato Venceslao sarà la chiave per il procedere sempre più diabolico del piano, fino a un fatto di sangue.

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foto Luigi la Selva

Impegnato in una crudele rappresentazione del dolore ma anche della disgregazione della dignità sociale portata dalle occupazioni dei Regimi, nelle tre ore di riduzione per la scena Ronconi tenta di infilare ogni possibile suggestione di testo e sottotesto, scegliendo di conservare – tra tagli che a volte si spererebbero più ampi – la forma romanzo, consegnando agli attori stralci con i quali raccontar al passato remoto le proprie azioni e suggerire, a volte immaginare e discutere i propri pensieri e quelli degli altri. Il personaggio di Witold Gombrowicz (energico e plastico Riccardo Bini), omonimo ma di certo non alter ego dell’autore che al tempo era già rifugiato in Argentina dove sarebbe rimasto per un quarto di secolo, vive la propria condizione di vecchio proiettandola sul personaggio di Federico, questo sì, un vero e proprio doppio, mala costola staccata da ogni tipo di pudore. A Paolo Pierobon che ne è interprete va il plauso più deciso, per quella sua capacità di ingrassare la gravità del proprio corpo con posture mai realmente erette, come fosse un animale vittima di un’evoluzione distorta, rimasto a metà tra bestia selvaggia ed educato pensatore, condizione che gli lascia in pegno un registro vocale viscerale e negli occhi la luce di un’insondabile follia. Quasi una sintesi dell’intera complessità del lavoro.

Sulla scena foderata di pannelli neri ma iridescenti, il magro mobilio scorre su binari nascosti (già cari al regista in altre messinscene) e cambia la normale struttura tra corpo avvicinante e corpo avvicinato, come dire tra volontà di possesso e oggetto del desiderio, creando una sorta di ragnatela in cui tutti scivolano con agilità e cui non possono di fatto sottrarsi. E questa è pura e felice traduzione del pensiero pornografico. Grazie alla lettura di Ronconi, come sempre di oceanica profondità, la laida immobilità del romanzo di Gombrowicz acquista una straniante vitalità (riflessa nello zoppicare atletico di Bini), risucchiando dentro una struttura narrativa a gorgo circolare le riflessioni dei personaggi e quelle dell’autore, la cui voce anche nella forma teatrale riesce a tenersi a distanza, come l’occhio cinico di uno scienziato affacciato sulla teca di un esperimento.

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foto Luigi Laselva

Ma in queste dinamiche sono fin troppe le verticali di ragionamento: c’è lo sguardo morboso di corpi decadenti verso corpi in fiore; c’è l’immagine della carnalità come unica dimensione vitale dell’uomo e una chiara allusione ai rapporti omosessuali; nel voyeurismo che si tramuta in atto concreto e sanguinoso c’è il pensiero realmente pornografico della manipolazione segreta che farà poi il paio allegorico con le “azioni clandestine” dell’Armia Krajowa; con il gran peso assegnato da Ronconi alla figura della “santa” madre di Venceslao arriva un duello frontale tra fede cattolica e ateismo; per estensione arriva il disegno sprezzante di una religione dei totalitarismi immune a qualsiasi rivoluzione intellettuale. La seconda parte del romanzo, apparentemente più teatrale perché ospita le macchinazioni di Witold e Federico destinate a farsi perno/oggetto per un’indiretta metaforica unione sessuale dei ragazzi nella forma ob-scena dell’omicidio, è invece la più ostica perché su troppi temi si cerca di fare il punto, impiegando troppe energie nella pur gratificante composizione scenica e nel tentativo di rendere giustizia a una materia letteraria che è, appunto, letteraria. In cui il meccanismo «dice qualcosa per non dire qualcos’altro» ha uno spazio di manovra più armonioso.

Uno spettacolo denso e faticoso, in cui Ronconi sceglie di lasciare spazio agli attori (Bini e Pierobon, gli altri sono programmaticamente poco più che abili comparse farsesche) regalando un memorabile simulacro performativo e però indebolendo certe traiettorie di senso che avrebbero permesso allo spettatore di trovare, in questa foresta di segni tutti esplicitati, una strada più personale, meno fredda, come solo il teatro e il vivo dei suoi corpi possono offrire.

Sergio Lo Gatto

Twitter @silencio1982

In scena fino al 17 aprile 2014
Teatro Argentina [cartellone 2013/2014] Roma

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PORNOGRAFIA
di Witold Gombrowicz
regia Luca Ronconi
traduzione Vera Verdiani
con Riccardo Bini e Paolo Pierobon
e con (in ordine alfabetico)
Ivan Alovisio, Jacopo Crovella, Loris Fabiani
Lucia Marinsalta, Michele Nani, Franca Penone
Valentina Picello, Francesco Rossini
scene Marco Rossi
luci Pamela Cantatore
foto di Luigi Laselva
durata
due ore e cinquanta minuti più intervallo
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coproduzione Piccolo Teatro di Milano-Teatro d’Europa, Centro Teatrale Santacristina, in collaborazione con Spoleto56 Festival dei 2Mondi

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Sergio Lo Gatto
Sergio Lo Gatto
Sergio Lo Gatto è giornalista, critico teatrale e ricercatore. È stato consulente alla direzione artistica per Emilia Romagna Teatro ERT Teatro Nazionale dal 2019 al 2022. Attualmente è ricercatore presso l'Università degli Studi Link di Roma. Insegna anche all'Alma Mater Studiorum Università di Bologna, alla Sapienza Università di Roma e al Master di Critica giornalistica dell'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica "Silvio d'Amico" di Roma. Collabora alle attività culturali del Teatro di Roma Teatro Nazionale. Si occupa di arti performative su Teatro e Critica e collabora con La Falena. Ha fatto parte della redazione del mensile Quaderni del Teatro di Roma, ha scritto per Il Fatto Quotidiano e Pubblico Giornale, ha collaborato con Hystrio (IT), Critical Stages (Internazionale), Tanz (DE), collabora con il settimanale Left, con Plays International & Europe (UK) e Exeunt Magazine (UK). Ha collaborato nelle attività culturali e di formazione del Teatro di Roma, partecipato a diversi progetti europei di networking e mobilità sulla critica delle arti performative, è co-fondatore del progetto transnazionale di scrittura collettiva WritingShop. Ha partecipato al progetto triennale Conflict Zones promosso dall'Union des Théâtres de l'Europe, dove cura la rivista online Conflict Zones Reviews. Insieme a Debora Pietrobono, è curatore della collana LINEA per Luca Sossella Editore e ERT. Tra le pubblicazioni, ha firmato Abitare la battaglia. Critica teatrale e comunità virtuali (Bulzoni Editore, 2022); con Matteo Antonaci ha curato il volume Iperscene 3 (Editoria&Spettacolo, 2018), con Graziano Graziani La scena contemporanea a Roma (Provincia di Roma, 2013). [photo credit: Jennifer Ressel]

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