Recensione Medea con Maria Paiato in scena al Teatro Eliseo
Medea l’esiliata, la barbara, la maga. Ancor più che nella versione Euripidea, dove l’atrocità del delitto è quasi sorretta dall’invocazione divina, la Medea del poeta latino Seneca è paradossalmente più umana, carnefice e vittima di sentimenti che la sovrastano. Per amore di Giasone ha usato le arti magiche, che per amore ha abbandonato seminando morte e distruzione. Per amore ha lasciato la Colchide, divenendo assieme al comandante della nave Argo, reietta. Sempre per amore, un amore che è folle e seconda faccia della medaglia dell’ira, alla fine del proprio cammino rinuncia allo status di moglie, perfino a quello di madre. «Nunc sum Medea». Adesso che ho deciso, ora posso diventare Medea.
Nella messinscena di Pierpaolo Sepe al Teatro Eliseo, una splendida Maria Paiato dà luce a questo tormento; il suo è un personaggio fosco come la nebbia che caratterizza l’allestimento. Un sentimento trattenuto a fatica, in grado di fuoriuscire come lampo accecante, serpentina suadente o muta stasi di fronte all’icona tratteggiata di rosso dei due figli, prima d’accartocciarne il foglio e indicarne la fine. In questa discesa agli inferi, accompagnata da un unico corifeo (Diego Sepe abile fool in occhiali specchiati e T-shirt a stampa), Medea si scontrerà contro lo stolto regnante Creonte (Orlando Cinque che convince nel tempo), incapace di usare lo stesso metro anche sul novello suocero; dovrà fare i conti con la vigliaccheria di Giasone (Max Malatesta ben calato in pose quasi alla James Dean) vinto dalle promesse di benessere. Ma soprattutto – ed è un piacere osservare i pensieri che baluginano nella mente di lei, adombrarne il viso e poi subito scacciare la tremenda visione – Medea dovrà fare i conti con la propria storia, con la propria stessa identità.
Scene, costumi, personaggi, tutto è moderno: una fabbrica in degrado, un Creonte non in corona ma gringo in pelliccia e cappello da cowboy, una nutrice (Giulia Galiani) improbabile Lolita dall’abitino che le scopre la schiena. Ogni elemento interviene nella percezione quasi a suggerire che questa storia è capace di risuonare in ogni tempo, in ogni luogo. Se ci fosse bisogno di rimarcarlo, concorderemmo. Quello di Seneca è il vivissimo resoconto di un amore cieco, furore che non guarda in faccia nessuno. Anche i riferimenti letterari alla modernità che la riscrittura di Francesca Manieri inserisce nella traduzione dall’originale latino (come le poesie dei prigionieri di Guantanamo, Cuba, un accenno alle Torri Gemelle) appaiono come sassi lanciati a increspare l’onda senza smuoverne il contenuto, circoscrivendo anzi quell’universalità che si vorrebbe invece ancor meglio esplicitare.
Tra i vetri rotti, questa fabbrica in macerie cela tutti i proiettori lasciando sul soffitto appena una porzione di spazio rinchiusa da una grata, al centro della scena vi è però un recinto che contiene un grande disco di legno: è un sole, segno del potere, forza arcaica sopita da cui trarre impulso, deus ex machina che consacri il gesto estremo. Eppure il disco rimane ancorato, non uscirà mai dalla gabbia e, strano, reca sul dorso, visibile appena anche dalla platea, un’iscrizione. Quel disco è un dollaro. A chi appartiene il potere mitico di questo segno imprigionato? Medea la straniera, riportando Argo e tutti gli argonauti dà inizio all’era occidentale. Non si tratta d’aver torto o ragione, d’attribuire le colpe – perché nessuno vi è escluso – ma di indiviuare di quali responsabilità dovremmo prenderci carico, seguendo le nostre scelte.
Viviana Raciti
Twitter @Viviana_Raciti
In scena al Teatro Eliseo fino al 17 Aprile 2014 [cartellone 2013/2014]
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MEDEA
di Seneca
traduzione e adattamento Francesca Manieri
con Maria Paiato, Max Malatesta, Orlando Cinque, Giulia Galiani, Diego Sepe
regia Pierpaolo Sepe
scene Francesco Ghisu
costumi Annapaola Brancia D’Apricena
luci Pasquale Mari
trucco Vincenzo Cucchiara
foto Pino Le Pera
aiuto regia Luisa Corcione
direttore di scena Clelio Alfinito
tecnico elettricista Carmine Pierri
realizzazione costumi Sartoria Orlì
assistente volontario scene Valeria Mangiò
assistente volontario costumi Claudia Volpe
assistente volontario regia Simone Giustinelli
grafica Luca Mercogliano
produzione Fondazione Salerno Contemporanea, Teatro stabile d’innovazione
Ho trovato inferiore alle “mie” personalissime attese l’allestimento dell a Medea di Seneca, appena vivificato dalle belle intuizioni del regista e della traduttrice/adattatrice e dal taglio moderno, spiazzante, giustamente richiamato dall’autrice dell’articolo. Quel che si omette di citare, a mio avviso, è che le tragedie di Seneca non sono materia puramente “teatrale”, essendo destinate tradizionalmente alle “declamationes”, cioè alle pubbliche letture: proprio per questo l’accadimento drammatico, l’azione, manca del tutto, raccontata in un fluire algido, poco fluido che ne ostacola il pieno godimento, provocando qualche torpore in platea. Anche il furore della Paiato, sempre encomiabile, mi è parso trattenuto, covato sotto la cenere, e ciò mi sembra confermi che la migliore dimensione di questa fantastica attrice sia quella moderna, da Pierattini alla Ginzburg, da Bernhard a Tarantino, solo per citare le ultime, folgoranti apparizioni che hanno caratterizzato le sue ultime perfomance.
Gentile Paolo,
la ringrazio per la lettura e per le sue interessanti riflessioni. Al di là della storicità delle tragedie di seneca -come lei giustamente riporta declamate e portate a mo’ di exemplum didattico (quindi i contenuti morali molto spesso prevalevano anche sull’azione) – l’aspetto per me più interessante sia vedere come un regista contemporaneo si muova in un territorio a lui lontano. Mi sento di dissentire in parte sulla mancanza di azione, in quanto penso che per “azione” si possa intendere anche un moto dell’animo, un cambiamento non immediatamente riscontrabile nei movimenti degli attori ma nella struttura interna all’opera. Per quanto rischioso-perchè mio parere personale- proprio questo mi sentivo in animo di sottolienare quando parlavo del pensiero che scorgevo sul volto della Medea-Paiato: l’uccisione dei figli sembra presentarsi un attimo e passsare oltre senza che si abbia il coraggio di esplicitarlo; la Paiato in quest’occasione è stata in grado di mantenere una sottile tensione senza servirsi sempre necessariamente di toni estremi (comunque presenti all’interno della messinscena). Proprio per questa sottigliezza d’interpretazione penso che il lavoro trattenuto e non “urlato” dell’attrice sia di valore, anzi io personalmente ( che ho sempre preferito la versione Euripidea) ho avuto modo di riscoprirne questa latina, nella quale ciò che muove l’azione è il turbinare di sentimenti, mossi all’ingiustizia dalla convenienza e dall’amore.
Spero di leggerla nuovamente,
V.R.