Recensione di Note di cucina di Rodrigo Garcia, regia di G. Roselli
Tra gli appassionati di teatro, sono probabilmente molti più quelli che conoscono l’argentino Rodrigo García come l’autore di spettacoli incendiari, personaggio controverso balzato diverse volte all’onore delle cronache a causa di operazioni al limite della censura. Grazie a un teatro fisico, sporco, diabolico e doloroso, egli è diventato una delle personalità più rilevanti del panorama internazionale, uno in grado di far svuotare mezza platea della Biennale di Venezia limitandosi a far comparire in scena una scatola di pulcini vivi e un gatto. Le azioni di performer che – tra bagni di ketchup e realistici strangolamenti – si trasformano quasi in martiri della scena oscurano con la loro folgorante potenza il tessuto drammaturgico che le sottende. Che è invece sempre un testo poetico di rara, rarissima fattura: rifiuta la forma classica, traducendo sulla pagina frasi brevi come sinapsi e non pretende quasi mai di assegnare realmente le battute. Come a dire che questo è ciò che il pensiero produce, le parole che lo esprimono sono tutt’altro paio di maniche. Maniche di cui spesso l’autore non ha interesse a occuparsi. Prendere in mano un testo di García drammaturgo e spogliarlo della presenza prepotente di quelle visioni ruvide, ricominciando proprio dalla parola, è un tentativo arduo ma serve a restituire a quel pensiero così appuntito la capacità di affondo.
Nelle Note di cucina in scena in un affollato Teatro dell’Orologio, i quattro attori – Raffaella Cavallaro, Giancarlo Fares, Sara Greco Valerio e Alessandro Porcu – agiscono sulla scena muovendo e utilizzando quattro tavoli da lavoro, a disposizione qualche verdura e utensili del caso, a un lato del palco un suonatore di liuto (Simone Colavecchi) accompagna le incursioni di un narratore/aedo in costume cinquecentesco, Giorgio Carducci che canta dal vivo con voce flautata e legge versi.
Potremmo a ragione dire della vicenda di due uomini che si contendono una donna, di due donne che si contendono un uomo, di rivalità tra cuochi, attraverso un bislacco e ciclico meccanismo che fa ruotare gli stessi ritornelli come in uno di quei rompicapi di Ionesco. La verità è che reali personaggi non ve ne sono, c’è la carica sapiente di un’invettiva che procede per libere associazioni, assonanze e giochi di parole, infilandoci in mezzo stilettate di cinismo acido, dichiarazioni di insofferenza verso l’intero complesso della società. Una società che García conosce bene, che odia almeno con la stessa forza con cui tenta di scuoterla da un assurdo torpore. E allora movimenti schematici, scambi di posto, sguardi che sembrano sottendere chissà quale significato, l’apertura sul fondo di una sorta di enigmatica wunderkammer con “capolavori” d’arte moderna, variazioni di registro che oscillano dall’addolorato monologo interiore a esilaranti scenette di finissimo cabaret per borghesi, tutto nella messinscena sembra essere in linea con la libertà accordata dallo stesso autore, tutto è potenzialmente un’arma di derisione di massa.
Di Giuseppe Roselli, che firma adattamento e regia, abbiamo avuto modo di vedere altri lavori, dal Dovevate rimanere a casa, coglioni! – sempre di García – a Bambiland di Elfriede Jelinek e John di Wajdi Mouawad. E anche stavolta teniamo a ribadire la sua indubbia inventiva e il coraggio nel portare sulla scena un materiale drammaturgico sempre problematico, muovendo gli attori dentro un ambiente di ragionamento complesso e multistrato, tempestandoli di input e gettandoli dentro uno spazio organizzato in modo irrazionale e pieno di trabocchetti per l’attenzione, a metà tra un salotto dada e un environment anni Sessanta.
Al punto che il costume cinquecentesco e il liuto sono al contempo un richiamo ai riferimenti colti alla storia dell’arte – che García si pregia di dissacrare – e un diversivo sullo sguardo, così come i quattro microfoni pendenti da altrettanti angoli del soffitto potrebbero essere porte dimensionali per memorie di infanzie strappate o limitarsi a fungere da semplice effetto speciale.
Ancora una volta Roselli stupisce per la tenacia, con cui stavolta aggiunge al testo anche altri frammenti dello stesso autore, e per l’ostinazione con cui libera idee su idee, impedendo quasi del tutto ogni stasi sulla scena. Se – come professa il culto dell’analisi testuale – in ciascuna battuta è contenuto un mondo, il García regista ha preso la via inversa, usando il testo per farcire un’azione carnale; Roselli mette al servizio dell’alto slancio poetico tutte le possibili risorse di artigiano della scena, ottenendo però un’energia creativa insufficiente a un tale esubero di materiali. Non mancano le immagini forti e delicate, ma nonostante il pur buon lavoro degli attori (soprattutto i più agguerriti interpreti maschili), tra poesia, arte, musica rinascimentale con svisate neomelodiche, cibo, sesso e verdure l’eccesso di segni si riduce a una mancanza di organicità sia visiva che di significato. A volte l’utensile più difficile da maneggiare è proprio il senso della misura.
Sergio Lo Gatto
Twitter @silencio1982
visto al Teatro dell’Orologio di Roma in febbraio 2014
Guarda il video su eperformance.tv
NOTE DI CUCINA
di Rodrigo García
adattamento e regia Giuseppe Roselli
con Raffaella Cavallaro, Giorgio Carducci, Giancarlo Fares, Sara Greco Valerio, Alessandro Porcu
al liuto Simone Colavecchi
scene Ciro Paduano
costumi Sartoria Bàste, Gianluca Carrozza, Francesca Novati
light designer Marco Scattolini
aiuto regia Cecilia di Giuli
consulenza musicale Maurizio Farina
foto e grafica Manuela Giusto e Omar Falcini