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MEDEA BIG OIL e il Giasone della Basilicata

Recensione dello spettacolo MEDEA BIG OIL

medea big oil
Foto di Ufficio Stampa

Un’ombra si allunga sulle colline, è il sole che compie il suo tragitto. Nient’altro che una vallata verde, eppure quest’ombra al nostro umano occhio sembra tetra, oscura, mano arraffante che tutto vuole inglobare. La paragoneremo a un’altra mano ombrosa che si sta appropriando di quella valle: è una mano che promette, che dà ricchezza, lavoro, è una mano sostenuta dalla scienza, che supporta lo sviluppo; ricordo Battisti che cantava «l’oro nero».

Cosa ci sia dietro la scoperta dei giacimenti petroliferi in Basilicata, in quella Val D’Agri stretta da monti e dalle necessità di una regione, dove l’industria estrattiva è percepita come manna salvifica in cui credere ciecamente nonostante i forti rischi di inquinamento, è l’oggetto del documentario di Mimmo Nardozza, Mal D’Agri, proiettato nella pienissima sala del Brancaccino, figlio minore di quel più noto teatro che ora accoglie i suoi spettatori come un cinema, al suono scoppiettante di popcorn e show glitterati. Nella sala sita al terzo piano di via Merulana non ci aspettavamo di veder documentari o di sgranocchiare cibo; eravamo lì per accogliere un debutto o un glorioso rientro in patria, alla luce di un riconoscimento artistico. Su queste pagine abbiamo raccontato del Premio Scenario, di come il Collettivo Internoenki, romano d’adozione, si fosse aggiudicato a pieno diritto la sezione per Ustica, dedicata a quei lavori più socialmente connotati.

Il collettivo diretto da Terry Paternoster, parla di teatro “in-civile” e mi piace pensare che giochino su quell’ambiguità da preposizione: siamo dentro la civiltà, oppure dando peso all’essenza di prefisso, quell’ “in” rafforza la nostra perdita, il nostro disagio di saper vivere assieme come animali sociali? Di certo ciò che appare più evidente in M.E.D.E.A. BIG OIL è la capacità di lavorare in gruppo, di essere corpo unico che trova propria identità nella somma di tutte le componenti, di tutte le voci. Queste, in un ritmo sempre brillantemente sostenuto, si elevano al di sopra di altre oppure si incastrano tra loro, in un miscuglio gioiosamente in-comprensibile. Non importa il singolo significato, quanto l’atmosfera generata, quell’identità tipicamente meridionale fatta di schiamazzi dal sapore dialettale, di vita comunitaria stretta attorno a eventi collettivi: la preparazione delle conserve di pomodori, la festa del santo o lo sconvolgente arrivo delle società petrolchimiche, che rivoluzioneranno la vita degli abitanti del paese.

medea big oil
Foto Ilaria Scarpa

La scrittura scenica, svolta per quadri di brechtiana memoria, affonda le sue radici nella tragedia greca, ma non soltanto – e forse non soprattutto – per la trama della Medea euripidea; dal capolavoro del drammaturgo ateniese, in una riscrittura originale, questo lavoro recupera la struttura narrativa, la figura della donna che per una fiducia sconfinata nei confronti dell’attraente ignoto finirà col sacrificare tutto, persino i propri figli. L’eredità più interessante risiede probabilmente nell’idea di coralità, nella quale corpi e voci sono legati a filo doppio, tutti protesi a testimoniare un pensiero comune, assieme nell’ingenuità, nella stoltezza, nel dramma.

Fin dalla conclusione della proiezione che ci aveva trovati coinvolti ma anche un po’ infiacchiti, i nove brillanti attori intonano una sonorizzazione fuori scena. Impiegheranno forse un po’ più del dovuto a scaldare l’atmosfera, in quella che per una divertente casualità definiremmo “partenza a diesel”, eppure la scena vuota sarà presto riempita dei loro corpi, emanazione emotiva, sensoriale, scenografica. Sottovesti, canottiere e una scarpa sola, intenti a un lavoro quasi da macchina futurista che però vibra di umanità, scomposta ma mai disomogenea. Quell’unica scarpa indossata rende sonorità diverse, ritmo vivo nel passo claudicante, in grado di connotare anche un altro livello: sono persone a cui manca qualcosa, manca un equilibrio, una stabilità appunto. In quella che è una tra le regioni più povere d’Italia arriverà il petrolio a riconsegnare le scarpe, quasi reliquia sacra da accettare come ostia. Ma il corpo in scena richiede altro ritmo, così come il corpo raccontato in Mal D’Agri denunciava disagi d’inquinamento, senza che la persona fosse in grado di rendersene coscientemente conto. E allora via la scarpa, sottobraccio. Sembra impossibile fare qualcosa per combattere realmente, si può soltanto tacitamente accettare e adattarsi alle storpiature. Ci sarà qualcuno che vorrà scappare, invano. Mentre la nostra Medea rimane madre di due figli, il Giasone contemporaneo, più che il marito emigrato in Germania è proprio la fiamma del petrolio, quella promessa allettante d’ignoto; con cieca fiducia ci si affida a colui che promette ciò che non dà. Forte presenza in scena anche se assente fisicamente, il petrolio (ricordato al più da un gioco, gorgoglio d’acqua soffiata dalla cannuccia, come il bollore dei pomodori in cottura) quasi un nuovo dio, non si può mescolare alla vicende quotidiane. Non vedremo mai la causa, solo la conseguenza. La drammaturgia forse sviluppa un po’ lentamente il conflitto, ma lo fa proprio perché messa in atto dalle vittime, ostinatamente convinte a non voler realizzare l’urgenza problematica.

Saremo spettatori della loro indifferenza all’evidenza dei mali, che scuotono con forza la nostra coscienza molto più che nella programmatica denuncia dichiarata; pur presente a tratti nel lavoro, essa si rivela con forse una punta di ingenuità e un’intenzione sociale molto più forte là dove invece appare sottintesa. A questo forse serviva quel documentario, a prepararci, lasciando che al teatro spettasse altro compito di ricezione. Ascolteremo il loro canto; canto che è un urlo, il nome dei figli, note sicure di presenza, poi incerta, e infine disperata mancanza. Paternoster anche in scena dichiara la propria forza in un commovente ritratto d’insieme, canto del cigno a una terra sorda, una terra che, citando il Modugno carnalizzato nella sua voce, è «amara terra mia, amara e bella».

Viviana Raciti
Twitter @Viviana_Raciti
guarda il video su e-performance.tv

In scena al Teatro Brancaccino dal 21 al 23 Febbraio 2014
Roma

M.E.D.E.A. BIG OIL
PREMIO SCENARIO PER USTICA 2013

scritto e diretto da Terry Paternoster
con Mariavittoria Argenti, Teresa Campus, Ramona Fiorini, Chiara Lombardo, Terry Paternoster, Mauro Cardinali, Gianni D’Addario, Donato Paternoster, Alessandro Vichi
luci Giuseppe Pesce
Assistente tecnico Ezio Spezzacatena
Organizzazione Anca Enache
Residenze Artistiche Teatro Bi.pop c/o Zona Rischio Casal Bertone (Roma) – Teatro Sala Umberto (Roma)
PROSSIME TAPPE
9 marzo Modugno (BA) Teatro Comunale – 15 marzo Bologna ITC Teatro di San Lazzaro di Savena – 11 aprile Mira (VE) Teatro Villa Dei Leoni – 12 aprile Udine CSS Udine Teatro Palamostre – 9 maggio Genova Teatro della Tosse – 7/8 giugno Roma Teatro Quarticciolo

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Viviana Raciti
Viviana Raciti
Viviana Raciti è studiosa e critica di arti performative. Dopo la laurea magistrale in Sapienza, consegue il Ph.D presso l'Università di Roma Tor Vergata sull'archivio di Franco Scaldati, ora da lei ordinato presso la Fondazione G. Cinismo di Venezia. Fa parte del comitato scientifico nuovoteatromadeinitaly.com ed è tra i curatori del Laterale Film Festival. Ha pubblicato saggi per Alma DL, Mimesi, Solfanelli, Titivillus, è cocuratrice per Masilio assieme a V. Valentini delle opere per il teatro di Scaldati. Dal 2012 è membro della rivista Teatro e Critica, scrivendo di danza e teatro, curando inoltre laboratori di visione in collaborazione con Festival e università. Dal 2021 è docente di Discipline Audiovisive presso la scuola secondaria di II grado.

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