Recensione di Amleto? e Alice delle meraviglie di Macelleria Ettore
Una sola compagnia per due spettacoli. La trentina/milanese Macelleria Ettore ha portato a Roma Amleto? la scorsa settimana al Teatro Argot, mentre Alice delle meraviglie ha terminato ieri le sue repliche al Teatro Tordinona. Approfittando della possibilità di vedere nell’arco di una decina di giorni lavori diversi dello stesso gruppo, era accattivante l’idea di tentare un ragionamento “cumulativo” così da riuscire a tracciare linee più ampie per riconoscere una poetica di compagnia. Perché il mestiere in teatro è espressione e l’espressione segue sul palcoscenico percorsi che, auspicabile seppure a volte si dimentica, potrebbero valere più dei singoli episodi nell’osservazione della realtà.
In Amleto? a dominare è l’oscurità. Un nero pesto, prolungato, profuso a intermittenza, che occupa circa la metà dello spettacolo. Ci offende, ottenebra e ferisce per volontà il nostro compito di scrutatori, si fa accecante come un bagliore violento. Il testo shakespeariano deflagra, esplode nelle increspature del rapporto fra l’uomo e la donna – Maura Pettorruso e Stefano Detassis – che lo provano in palcoscenico. Si insinua nella concretezza dello loro esistenza e la lascia sopraggiungere per sgretolamento, si ripercuote su di essa secondo una logica che funziona per gap: di amplessi, di attrazione, di repulsione, di pianto, di normalità. I momenti, come fasi diverse, sono montati in sequenza e intervallati dalla cesura del buio. Un buio che non è stasi, non è quiete, non è silenzio. Nella sua sospensione inglobante l’essere e il fare continuano a succedere: intuiamo l’attraversamento dello spazio, sentiamo le voci, ci rimangono i rumori, i suoni dell’azione, gli stralci delle battute. Il fantasma elisabettiano incombe, insegue gli accadimenti senza mai riuscire a mostrarsi compiutamente. Per quanto limpido ci risulti l’intento dell’operazione e interessantissimo l’esperimento dell’eliminazione estrema della luce, resta qui una certa perplessità. L’impressione troppo facilmente va a finire a quegli spettacoli che negli anni ’70 fecero dell’astrazione intimistica la propria cifra di valore intellettuale nelle famose cantine off e l’intoppo, magari del tutto soggettivo, risiede nella percezione dello scarto tra la contemporaneità di allora e la post-contemporaneità di oggi.
Per molti aspetti diverso, per altri simile, ciò che può dirsi di Alice delle meraviglie. Il monologo è come l’altro composto attraverso una cortocircuitazione con un testo originario, in questo caso di Carroll. Pettorruso sola in scena e seduta su uno sgabello cui sembra agganciata quasi da un perno, attraversa lo scontro della definizione della propria immagine, in una sorta di corrente delle idee. La dominante di bianco e nero si conserva nei cambi di intensità delle luci, che alternano passando dalla freddezza lucida della razionalità al rosso dei fermenti immaginifici ricollegabili al sogno. Gli appoggi ironici non sono pochi e contrappuntano sottili il procedere dell’assolo; fondano la propria efficacia sul non senso o meglio sull’assurdità di giochi di parole. Il linguaggio è centrale, la sua articolazione si riverbera sulla mimica del viso (imbiancato come quello di un mimo), mentre le possibilità semantiche sono provate da coniugazioni impossibili. Impossibili come impossibile la definizione monolitica di sé stessi, acclarata piuttosto in una ricerca continua fra verità e fantasia, auto-coscienza e riflesso dello specchio altrui. Tutto qui è contratto in un unico punto: l’immobilità, i cambi di angolazione, la corsa, persino la fluttuazione, si svolgono sul cardine di una seduta che equivale alla ricerca di equilibrio identitario. Più brillante questo secondo lavoro, forse per il sarcasmo dialettico che diluisce e legittima lo psicologismo spinto.
Quella che ci si rende palese è un’estetica del processo, dove l’istantaneità degli avvenimenti sembra risultare da derive pregresse e inevitabili. Vicende e personaggi conosciuti, azioni si incontrano in un crocevia di contrapposizioni, di sbalzi della percezione, esplodono per contrasto nel tempo e nei modi della performance cercando l’evidenza di un conflitto. Le figure che ritornano sono centrate sul rapporto identità-alterità, sulla relazione che intercorre fra persona e personaggio. La rappresentazione è campo di indagine del sè, è presentazione e ri-presentazione di un “io” bramante la propria equivalenza nel mondo, nella dimensione della vita riflessa sulla dimensione della scena. Alla mente due termini ricorrono e dal pensiero arrivano agli occhi: flusso e detrazione. Come se l’evento potesse essere scarnificato di tutto ciò che non risulta necessario all’essenzialità del corpo o meglio della presenza dell’attore in quanto lemma scenico significante, gli allestimenti sembrano concepiti secondo una logica di sottrazione. In ogni caso quello che ci resta è una coerenza intellegibile, il procedere di una ricerca che fugge la gratuità e basta ad avvalorare queste e altre imprese.
Marianna Masselli
Twitter @mari_masselli
guarda il video di Alice su e-performance.tv
guarda il video di Amleto? su e-performance.tv
Visti in febbraio 2014 al Teatro Argot Studio e al Teatro Tordinona
Roma
Macelleria ETTORE_teatro al kg presenta
AMLETO?
in coproduzione con Napoli Teatro Festival 2013
e con il sostegno di ArTè Teatro Stabile di Innovazione di Orvieto, Corte Ospitale – Rubiera, Torre dell’Acquedotto e Spazio Off – Trento
con Stefano Detassis e Maura Pettorruso
disegno luci Alice Colla
organizzazione Daniele Filosi
testo e regia Carmen Giordano
ALICE DELLE MERAVIGLIE
con Maura Pettorruso
disegno luci Alice Colla
organizzazione Daniele Filosi
testo e regia Carmen Giordano