Deborah non c’era. Il mondo le si faceva intorno, la carezzava una stagione dopo l’altra mentre la sua vita era vacante, dispersa per strade perdute dov’è perduto anche il senso stesso di ciò che esiste. E cosa no. Il sonno dei “risvegliati” dura più dell’assenza, riveste le ore strappate al tempo universale che torna a farsele contare, rinchiuse dentro scatole pneumatiche, in una solitudine perenne e duratura. C’è un letto d’ospedale sotto la sua figura snella, la radice dei suoi ultimi trent’anni che l’hanno presa adolescente e ritrovata adulta, ampolla di uno stato comatoso in cui è segnato un termine alla vita d’allora e un nuovo inizio, tra le lenzuola che la fasciano, il corpo ancora vivo sia pure immerso nella solitudine del nascondimento.
Era il 1982 quando il non ancora Premio Nobel Harold Pinter decise di dar vita a questo testo, ispirato da una delle storie più attraenti e inspiegabili contenute nella raccolta Risvegli (1973) in cui Oliver Sacks, medico e scrittore inglese, testimoniava i molti casi di un’epidemia neuropatica – encefalite letargica – che sconvolse il mondo in dieci terribili anni, dal 1917 al 1927, e che concluse solo nel 1969, quando l’invenzione del farmaco L-dopa permise di intervenire e rinvenire i semi umani dispersi in un corpo abbandonato. Pinter lo chiamò Una specie di Alaska (ora contenuto, per l’Italia, in una raccolta di Einaudi: Chiaro di luna e altri testi teatrali, 2006), con questo lasciando intendere lo stato vacante in un luogo di immensità disperata, i cui confini non sono allo stato umano del pensabile e il ghiaccio è il solo orizzonte possibile. Finché non si rompe la crosta, avrà pensato. Finché non si frantuma il pack e l’impatto con l’acqua glaciale del sottosuolo è un risveglio brusco, come cambia stato una larva, come una vita nuova avuta in cambio dalla morte.
Il palco del Teatro Quarticciolo di Roma, disposto dalla regia di Valerio Binasco, si fa ospite di quel letto, si suppone vi abbia giaciuto Sara Bertelà fino a poco prima di guardarci, accorgersi del mondo attorno a lei. Troverà un uomo, si alzerà dal tavolino ch’è di fianco al letto e inizierà a farle domande. È il dottore che l’ha risvegliata (Nicola Pannelli), mentre si avverte sullo sfondo la sagoma di schiena di una donna che scopriremo. Ma per ora c’è una bambina dentro il corpo di una donna, lei non si specchia, sa di essere la ragazzina che ha lasciato. I suoi ricordi sono vivi al giorno ritrovato acceso ma di una luce che – lei lo ignora – non illumina più. Cerca le sue cose, i suoi affetti di allora. Sembra capire la sua nuova condizione, il caso in cui è capitata. Poi piomba di nuovo nell’inconoscibile, cerca di spingere le immagini di cui si fida nell’ignoto di cui l’altro, il dottore a lei sconosciuto, le parla. Tra coscienza e incoscienza, dunque, l’ingresso di una sorella bambina, Pauline (Orietta Notari), più giovane di lei e ora donna adulta, sarà il punto di svolta, il momento cioè in cui il ricordo si fa presente: è diversa dalla sorella che conosceva, con i fiori in mano, di mezza età, ingrassata dentro un jeans che la stringe, scopre in lei il cambiamento di sé stessa. È l’altro il vero specchio, le svela il segreto tutto umano e dall’Alaska, piano piano, inizia il viaggio di ritorno.
In Pinter è chiaro un punto nodale, la consonanza fra situazione e condizione, la ricerca del paradigma umano, esistenziale, nell’accadimento tra gli uomini. Con pochi elementi, Binasco ne sa ribadire la necessità, pur se espressa in un testo strutturalmente debole, non fra i migliori dell’autore inglese. Egli si avvale soprattutto del lavoro sull’attore, ne usa di fidati e capaci di tenere in un ruolo difficile come Bertelà (premiata per questo lavoro con il Premio Le Maschere del Teatro 2013) e Pannelli che provengono dai suoi anni e dalla sua stessa scuola, quella genovese che ha fatto e fa conoscere generazioni di buoni interpreti. Compone la scena con quel poco che può una camera di ospedale, non altro. Vi si avverte il tempo scandire l’esistenza ritrovata, quel segreto nel ticchettio di una goccia battente. Non c’è nulla fuori posto e tutto anzi, dalle luci alla struttura scenica, ha una correttezza formale che proprio per questo, però, non riesce a far diventare questo piccolo e solido spettacolo un’esperienza da ricordare. Ce ne sono tanti, ben fatti e immaginati per girare in esile formato, buoni a far stagione un po’ dovunque, ma la cui urgenza non pare determinante né per il percorso dell’autore dello spettacolo, in questo caso il regista Binasco, né dunque per chi vi assiste, che certo apprezza, ma presto rischia di dimenticare. Ovvio, a meno di un imprevisto risveglio.
Simone Nebbia
Twitter @simone_nebbia
Visto in gennaio 2014 al Teatro Biblioteca Quarticciolo [cartellone 2013/2014] Roma
Guarda il video su eperformance.tv
UNA SPECIE DI ALASKA
di Harold Pinter
con Sara Bertelà, Nicola Pannelli e Orietta Notari
Allestimento scenico Nicolas Bovay
Costumi Catia Castellani
Regia Valerio Binasco
Produzioni Nidodiragno
Un critico discettava in romanesco nel foyer prima dello spettacolo, autocelebrando la sua attività e il suo potere tra i pochi spettatori presenti: “si me piace je faccio la recensione, sinnò…” e po ” mercoledì nun ce vado da Albertazzi”….che pena!
Ero a teatro, al Quarticciolo, e in attesa di entrare c’era uno che si definiva “critico” in mezzo alla trentina scarsa di spettatori. Parlava con suoi conoscenti, in attesa come lui nel foyer, con forte accento romanesco: “si me va, je lo recensisco, sino ciccia; si me va, mercoledì da Arberrtazzi nun ce vado, e amen”…..chissà chi era!
Gentili Franco e Ercole, rispondo solo per una curiosità: ma siete fratelli? Magari gemelli? Avete comunque una certa intesa io vi consiglierei di incontrarvi. Magari nel foyer del prossimo spettacolo. In ultimo domando invece: quale problema intendevate sollevare? Chi sarebbe il sedicente critico che citate? Avete immagino delle idee…ne avete? Ma soprattutto, qui si cerca di parlare di uno spettacolo: avete qualcosa da dire nel merito del discorso?
credo che non lo sappiano neanche loro, dato che franco scrive Chissà chi era! E credo che il problema che intendevano sollevare è la qualità dei critici teatrali di oggi, senza offesa per nessuno. Credo eh!