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Atlante XXXIV – Cronache dalla città perduta

Sotterranei della Roma teatrale
Foto da www.gaviguiso.it

C’era un volta. Comincia così una favola. Ma le favole hanno un lieto fine e qui di lieto non c’è molto più che una memoria condivisa e recente, troppo presto dimenticata. C’era una volta si può dire quando c’è ancora qualcosa, o qualcuno che ne sia cantore, o almeno un rimando, una frequenza di rimbalzo, una madeleine sia pure scaduta a dire di un tempo attuale rintracciando un tempo che fu. Roma è stata una culla del teatro contemporaneo, gli ultimi due decenni hanno convocato energie in una riunione permanente di creatività collegiale, fin tanto che i luoghi però abbiano saputo farsi trama di fili rossi per rinnovare di volta in volta la consistente qualità del tessuto. Alcuni spazi hanno fatto allora la fortuna di artisti oggi riconosciuti in Italia e all’estero, cui brinda l’establishment sottoculturale del teatro cogliendo il seme di novità nel seno della loro ricerca, pur ignorando che ogni ricerca visibile ha in sé lo svolgimento di un processo dove forse in ciò che si esprime non è ancora risolta l’indagine espressiva, dove l’esperienza non ha già sublimato in sé l’errore come arte dell’errare.
Ci mancano, posti così. Ci mancano molto. Qualche sera fa un cortocircuito emozionale – già, soggettivo ma che l’atto di scriverlo rende oggettivo – è tornato a far parlare i luoghi perduti come le città sparite dell’antichità, le occasioni lasciate a misurare una sala spenta e gelata da un tradimento in divenire, l’ansia avvilente ma densa di un errore possibile, imminente, uno spreco paradossalmente ascritto alla lavagna dei valori.

All’ultimo posto di una platea appena scoscesa verso il palco, la prospettiva verso la scena destabilizzava per l’insolita occasione di vedere uno spettacolo dalle spalle della regia, lì di fianco a mostrare i movimenti delle mani e le posizioni d’appoggio alle battute, l’innesco di un meccanismo di finzione che raccoglie gli aggettivi del teatro a farlo detonare in quanto sostantivo. Il teatro è lo Studio Uno a Torpignattara, periferia di una città con le imposte sbrecciate di palazzi immiseriti e l’intonaco fiaccato dai fumi ambulanti, lo spettacolo – e quindi l’occasione – è stato Criminal, testo del da noi poco noto drammaturgo argentino Javier Daulte, messo in scena da Manuela Cherubini di Psicopompo Teatro.

Ma non è questo, a mandare in corto la percezione. Otto anni fa, con un altro cast e un altro fervore teatrale, la stessa regista mise forse “in prova” più che in scena lo stesso testo, nella sala teatrale del Rialto Santambrogio di Roma. C’è voluto poco per tornarvi con la mente, ridefinire i contorni a un restauro della memoria sia pur di breve raggio. Fu un luogo – chiuso con la forza nell’estate del 2009 – in cui l’esperimento e l’esperienza ancora viaggiavano in sintonia e si poteva confrontarli restando assieme, la sera, nel luogo dell’agire, in cui si poteva sbagliare e quell’errore non era che un altro modo di fare teatro, quello che non va per questa volta ma che cova il modo adatto a sé, soltanto da rintracciare. Questo fu il Rialto, un luogo di quelli che non ci sono più (lo stesso Studio Uno come altri in città può formalmente ricordarlo, ma non ne ha la vocazione). I “suoi” artisti cresciuti a Roma si sono dispersi in vari anfratti, ne cercano di nuovi, abitano locali, piazze e librerie pur di trovare un briciolo di vita restituita come unico obolo, vincono premi nazionali e poi ricercano il silenzio, scavano nelle loro cose per rintanarsi in buchi glaciali da scaldare, ritrovano il senso del loro mestiere misurandovi l’estremità dell’azione teatrale.

Eppure non si può continuare, non si può eludere la tradita necessità. Tralasciando la qualità emotiva e solo nostalgica, bisognerebbe avere il coraggio di dichiarare lo stato di calamità in una città priva di politica culturale perché priva di cultura politica, affermare che senza la presenza di luoghi germinali (diversamente dai tanti teatri e teatrini in cui mettere in scena spettacolini o spettacoli) non ha più vita niente, la società non si riconosce più nel teatro perché esso è unidirezionale, coglie una sola dimensione di figura, di lineamento, ma ignora di dover essere presenza concreta, altra vita oltre il confine della platea.
Abbiamo perso questi luoghi, stiamo via via perdendo i loro artisti. Li ritrovi in un angolo di mondo a spingere bottoni per una volontà inalterata di agire, ma il loro gesto che pure non è vano si dilegua prima di raggiungere la superficie, prima di potere dichiararsi atto materiale e perentoria conseguenza di pensiero: c’era una volta una regista di spalle che un critico vedeva muovere i fili di una scena teatrale, di lei si fidava e della sua azione era parte, l’entrata di una musica nella storia o di una luce nella scena era ogni volta la stipula di un patto fra chi agisce e chi, nell’azione, ci crede. C’era un volta il teatro che si fa, c’è adesso il teatro che soltanto si mostra.

Simone Nebbia

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