Più che la cieca imposizione di un linguaggio, la grande sfida della creazione artistica di oggi sembra essere quella di mettersi in crisi, mettere quel linguaggio alla prova del confronto con immaginari lontani, con temi che a diversi livelli chiamano in causa la presenza attiva dello spettatore, visto come sperduto animale politico (vedi il progetto di Muta Imago) o come profonda cassa di risonanza per un allargamento percettivo. Funzione fondamentale anche quest’ultima, se si pensa l’arte come un’opportunità potente e segreta di acquisire una consapevolezza del mondo.
Il debutto a Romaeuropa del progetto Harawi di Santasangre intercetta una di quelle opportunità. L’unica indicazione impartita al collettivo romano dalla Sagra Musicale Malatestiana di Rimini che commissiona lo spettacolo, è che Harawi – prima stanza, insieme a Turangalîla-Sinphonie e Cinq rechants, di un trittico di lieder composti da Olivier Messiaen nel 1945 a partire dalla leggenda di Tristano e Isotta – non venga in alcun modo tagliata o contaminata da altre applicazioni sonore se non quelle previste dalla partitura: un pianoforte e un soprano. Ma a dirla così non stiamo rendendo l’idea. Perché la musica del geniale compositore provenzale è qualcosa di diverso: nelle dita del pianista Lucio Perotti sembra scorrere una continua scarica elettrica, un cortocircuito impossibile da risolvere che lancia le mani ai due capi della tastiera facendo letteralmente sobbalzare i timpani.
La presenza straniante di un ginnasta e di una falconiera tornerà in diversi momenti dello spettacolo a costruire un ponte concettuale tra due epoche di eccellenza del gesto, due modelli di eleganza con radici piantate ora in un cupo e sognante medioevo, ora nella glaciale calligrafia contemporanea. L’ampio boccascena del Teatro Vascello è chiuso da un velatino, dietro il quale agiscono i corpi non più giovani di Maria Teresa Bax e Marcello Sambati: tra finissima danza pura e la più primordiale prossimità, le loro sono presenze eccezionalmente carnali. Come muti fantasmi i due performer compongono movimenti fluidi; con una decisa puntualità simbolica nel gesto mimico abitano senza rumore uno spazio che non ha più contorni. Alle loro spalle un altro velatino protegge pianista e cantante, segno che le due dimensioni (quella del corpo agito e quella del suono agito) resteranno separate. Tornano le sorprendenti proiezioni video tipiche di Santasangre, gli ologrammi e le animazioni grafiche dal vivo, una complessa traccia visiva scomposta in molteplici piani che, mostrando il mondo di oggi con carrellate di periferie, aeroporti e folle di volti sfocati, illumina, trafigge, nasconde, rivela, sforma e incornicia i corpi dei due danzatori, rendendoli un nucleo vibrante di sensualità senza più età.
Il radicale serialismo di Messiaen crea un ciclo sonoro dalle proprietà ipnotiche: la voce di Matelda Viola insegue e si lascia inseguire dal piano, alle prese con liriche che passano dal francese antico a pure onomatopee, saltando da un ramo all’altro della scala cromatica e richiamando atmosfere da profonda giungla tropicale. A rendere a volte pesante e ingombrante la musica è stata purtroppo la decisione di non mettere a disposizione una versione italiana del testo, dal leggere prima o dopo, per assaporare il carattere dei dodici poemi che compongono Harawi. In vertiginosi acuti e affilati vagiti Messiaen affonda nei suoi studi di ornitologia, mettendo a punto un vero e proprio linguaggio inventato fatto di sillabe insensate e accenti di diaframma, un intero immaginario abita i versi come accessi di allucinazione. Allora Isotta diventa Piroutcha, descritta prima come una «città che dorme sulla collina», poi come una «colomba verde», simbolo Maya dell’amore; il verso «pia» che imita il cinguettio ma si rifà a una leggenda Inca; captiamo i riferimenti alla pittura di Sir Roland Penrose.
Materica, sanguigna, lanciata in picchiata dentro la più pastosa delle atmosfere oniriche, Harawi è un’opera multimediale intensa ed esigente. Neppure qui Santasangre rinuncia al carattere gelido e quasi alieno con cui la scenotecnica convoca sul palco visioni complesse e architetture d’ambiente quasi sensoriali, ma l’arte di Diana Arbib, Luca Brinchi, Dario Salvagnini e Roberta Zanardo riesce a governare la maestria di esecuzione in modo che non divori ciò che accade in scena, un movimento dell’inconscio presentato come atto puramente umano.
Sergio Lo Gatto
HARAWI
Testo e Musica Oliveir Messiaen
Soprano Matelda Viola
Pianoforte Lucio Perotti
Ideazione Diana Arbib, Luca Brinchi, Dario Salvagnini, Roberta Zanardo
Con Maria Teresa Bax, Marcello Sambati, Antonello Compagnoni, Monica Galli
Produzione Sagra Musicale Malatestiana e Santasangre
Con il contributo della Regione Lazio
Con il sostegno del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Snob production/MIT