Irrompono sulla scena due ragazzi in biancheria e nonostante una melodia assordante è un profluvio di parole confuse ciò che ci coglie, codice segreto il cui senso è percepibile anche se non inteso fino in fondo. Non è la sonorità del siciliano che pure è lingua del testo ad impedirne la comprensione, quanto l’impossibilità ad accedere profondamente, se non attraverso uno sguardo partecipato, al loro mondo perfetto e invalicabile fatto di cuscinate, giochi e scherni che testimoniano una vicinanza intima ben oltre il loro esser parenti. Due cugini: lui, figura quasi fuori dal tempo con un’ ingenuità d’animo trasposta nello sguardo e l’atteggiamento femmineo dei gesti che rivelano un’omosessualità acerba e innocente; lei, femmina sontuosa dalla lunghissima criniera corvina e generosa nella guida di un tragico cammino, Giovanni e Rosaria rispondono ciascun per l’altra a nome di fratello, genitore, amante, amico. A dischiudere questo universo sarà Giuseppe, virile e ambiguo maestro di ballo di Rosaria che, da amante segreto di Giovanni, finirà per determinarne tragicamente l’esistenza.
Io, mai niente con nessuno avevo fatto è il fortunato lavoro di debutto della compagnia Vuccirìa Teatro, vincitrice della passata edizione romana del Fringe Festival e che fino al 3 novembre sarà in scena al Teatro Spazio Uno. Premiato anche in altre rassegne, patrocinato dal Assessorato alle Politiche Culturali di Roma e sostenuto dalle più importanti associazioni LGBT e dalla sezione catanese della Lega Italiana per Lotta all’Aids, lo spettacolo che nasce come naturale esplorazione di un monologo, affronta l’iniziazione sentimentale di un ragazzo – qui interpretato dal regista, autore e fondatore della compagnia Joele Anastasi, accompagnato in scena anche da Federica Carruba Toscano e Enrico Sortino – in grado di affrontare con intelligente leggerezza non tanto l’omosessualità, quanto l’accettazione del rischio di una malattia come l’Aids. Non sono più gli anni Ottanta dell’emarginazione e del rifiuto, quella raccontata non è una lotta per l’affermazione identitaria. Giovanni, cresciuto tra sole donne, rischia di cadere nello stereotipo, non si risparmia Anastasi nel tratteggiare vezzi e toni facilmente identificabili, eppure riesce a salvarsi dalla facile etichetta grazie soprattutto a quell’atteggiamento di innocente noncuranza del pensiero altrui. Come bambino – che emula la sua compagna, anziché desiderarla – egli non nega la propria femminilità, eppure sente di essere l’uomo della famiglia, in grado a suo modo di difendere l’amata cugina, di mettersi in gioco per l’amore desiderato, e sopra tutto, di rimanere fino alla fine fedele al suo sorriso distorto da un rossetto malmesso.
Storia d’amore delle più classiche con tanto di tragico e presagito finale, la drammaturgia abbandona la linearità per perdersi nei cunicoli della memoria di ciascun personaggio che in quanto tale non prevede (tranne l’unico episodio iniziale) interazione con l’altro se non nell’evocazione, ma mai nel dialogo diretto. È una storia già vissuta, raccontata direttamente al pubblico ognun per sé nella propria porzione di palco, in una costruzione scenica fondata tutta sull’interpretazione degli attori che riescono talvolta a calibrare emotività ed efficacia del racconto, in altri momenti invece riescono meno, perché se è vero che di cuori dilaniati dalla perdita si sta parlando, lo squarcio dell’urlo raramente è in grado di restituirne la sincerità intima.
Reazione all’impossibilità del poter raccontare un presente che non è più, è la loro una condizione isolata nella rievocazione di un passato in cui non è più possibile interagire coi propri fantasmi; perfino la violenza è una percossa inflitta da uno spettro invisibile, come invisibile è la mano che in penombra denuda o in penombra gode. Ci si potrà abbracciare soltanto da soli, in un misto di tenerezza e nostalgia. Eppure non soffrono di solitudine i personaggi, anzi, qualità del testo è la capacità di legare a filo doppio momenti e storie diverse, durante i quali anche due opposti come Rosaria e Giuseppe, potranno usare gesti e parole identiche per parlar di cose che seppur diverse (l’una la scoperta di un baule di vestiti con cui giocare, l’altro il ricordo della loro prima esperienza d’amore) dicono dello stesso bisogno di consolidare legami, che non possono più essere ma di cui diventa necessario riappropriarsi.
Viviana Raciti
Visto al Teatro Spazio Uno in ottobre 2013
IO, MAI NIENTE CON NESSUNO AVEVO FATTO
scritto e diretto da Joele Anastasi
con Joele Anastasi, Enrico Sortino, Federica Carruba Toscano
aiuto regia Nicole Calligaris
costumi Giulio Villaggio
foto Dalila Romeo
video Giuseppe Cardaci, Elia Bei, Davide Maria Marrucci
produzione Vuccirìa Teatro
organizzazione e distribuzione RAZMATAZ
ufficio stampa leStaffette
Credo che la violenza sia tutt’altro che “inflitta da una mano invisibile” ma dalla concreta mano di un patriacato che qui si esplica in tutte le sue forme, in tutte le sue ramificazioni, senza rispiarmiarci nomi, modi o motivi…
Salve Alessandro, la sua affermazione, che condivido in generale, si riferisce a un ordine di idee sottese al testo, mentre la mia notazione è legata ad una trovata scenica – tra l’altro secondo me efficace – tale per cui dall’effettiva assenza di un personaggio che realmente colpisse con propria mano la vittima, si rispondesse con la stessa modalità coerente in tutta la messinscena. Trattandosi di un ricordo e non dell’esposizione di un presente, quella percossa può soltanto essere evocata, non a parole, ma attraverso i suoi effetti sul corpo dell’attore. L’accento non è su una critica al patriarcato quanto sulle conseguenze che questo produce. Spero di aver risposto al suo dubbio e la ringrazio per la possibilità di chiarimento. Viviana Raciti