Teresa Ludovico porta sulla scena (la cui sala appare purtroppo semivuota) due testi del proteiforme Antonio Tarantino, drammaturgo, pittore, politico; due lame fatte di parole in grado di riversare sui campi di concentramento polacco una desolata Medea odierna per la quale l’infanticidio rimane una paradossale rivendicazione, atto politico che si svuota nel momento stesso in cui è compiuto. Ma prima della deportata che ritorna a raccontare la sua storia ad un quasi sopravvissuto Giasone – muta figura che accoglie il mito e nell’ascolto permette che si trasformi in storia–, saremmo riusciti a intravedere qualcosa di apparentemente ancora più lontano. Dietro una figura altissima e ingobbita, prostituta malmessa e bianca, impensabile appare un’ombra di Antigone. Svuotata di tutti i sentimenti di ira e rivendicazione, l’eroina è vibrante di devozione non più nei confronti del fratello ribelle ma verso un compagno sodomizzante e protettivo, trovandosi poi faccia a faccia con l’unico cliente dietro il quale si nasconderà, scopriremo, l’incestuosa ombra paterna.
L’adattamento portato avanti dalla regista, attrice e direttrice artistica del Teatro Kismet OperA (visto a Roma al Teatro Quarticciolo) affida al ritmo – verbale e sonoro – gran parte della costruzione scenica, quasi non osa affondare la mano nella riverenza di un testo che è già stravolgimento di qualcos’altro. Sulla scena un quadrato di luce e poco di più: una sedia e all’occorrenza qualche valigia. I due personaggi riportati senza giudizio, sono come fotografati in alcuni piccoli accadimenti rivelatori: Antigone, perenne tacco a spillo battente quasi fosse il metronomo della sua esistenza, catarticamente si sfilerà la bianca parrucca al riconoscimento del padre come cliente. La Medea cecena, invece, rinchiusa nel campo di concentramento di Sobibor e poi costretta ad una perenne fuga, si ritroverà a ripercorrere la propria vita di stenti fatta di continue traversate su camion in cui la moneta di scambio è il proprio corpo, la propria dignità.
Il linguaggio schietto, crudo, basso, in un italiano che spesso lascia il posto a pur leggere inflessioni dialettali, verrà a volte rinfrancato da certi intermezzi aulici in cui sembra di riconoscere maggiormente la matrice tragica originaria, inserendo ad esempio nel secondo atto unico una nenia in grecanico salentino che – come ci racconterà Ludovico in un spontaneo dibattito post spettacolo – veniva cantata nella sua zona durante funerali dei bambini. Ancor più di Antigone, quello di Medea è un racconto a posteriori, in cui tutto è accaduto e nessuno ha più il potere di riportare ciò che non c’è più. Ma allora perché parlarne? Probabilmente la chiave è proprio il ritorno verso qualcuno, ritrovandosi infine a fare i conti con se stessa di fronte a un Giasone muto che non è più lo sfrontato eroe greco ma pura presenza in ascolto. Le parole dette si fanno leggere, e il peso della vita portata in quelle smunte valigie diventa, se si cammina assieme, lieve come i fiori lanciati in aria durante le ultime battute.
Viviana Raciti
Questo articolo fa parte del dittico Rivedendo i classici. Il virtuoso tradimento di Tarantino e Testori
visto al Teatro BIblioteca Quarticciolo di Roma in Ottobre 2013 [cartellone]
Guarda il video su e-performance.tv
PICCOLA ANTIGONE E CARA MEDEA
di Antonio Tarantino
diretto e interpretato da Teresa Ludovico
e con Vito Carbonara
spaio e luci Vincent Longuemare
produzione Teatro Kismet OperA