Recarsi in un posto nuovo implica in sé, come azione di concetto, sempre una forma di curiosità che prepara lo sguardo ad un grado di percezione implicitamente più ricettiva. Se il luogo è poi quello deputato all’incontro con la scena è pressoché ovvio che il contesto ci si presenti come uno degli elementi caratterizzanti l’esperienza. Così è stato anche per la prima visita al Teatro Millelire (alla sua seconda stagione), spazio a due passi dal Vaticano che ospita sino al primo dicembre PROIBITO– Diane Arbus un’icona della fotografia scritto, diretto ed interpretato da Priscilla Giuliacci. Superato il cortile interno di uno dei condomini tipici della zona, ci si ritrova in un piccolo foyer grigio antracite con quadri alle pareti, divanetti e una sedia appesa al soffitto, che fa da sfogo alla zona bar oltre che da accoglienza all’ingresso nella sala rettangolare, stretta e lunga.
Fra i reverberi rossi che invadono la scena e si riflettono sulle sedie della piccola platea, una pedana si offre come giaciglio monolitico per un corpo circondato da cordini di spago che sospendono fotografie e quattro scatole di compensato all’interno delle quali gli spettatori son chiamati a scoprire, nemmeno troppo difficile da dedurre, immagini della fotografa americana. All’inizio della performance è una voce registrata – quella dell’interprete che legge un frammento di Alice in Wonderland – a interrompere il silenzio e vivificare la figura di donna che scopriamo all’aumentare della luce in vestaglia blu e chemisier da notte bianco. Inizia così un monologo costruito per momenti, scaglionato da cambi d’abito, stacchi di buio, proiezioni sullo schermo al fondo dove filmati montati, sequenze di immagini e incisi biografici aiuteranno la composizione delle situazioni. La partitura rende il tentativo di ricostruire la coscienza, il percorso fulmineo e fulminato di attraversamento della vita di uno degli sguardi più straordinari e pregni che la storia della fotografia abbia conosciuto. Si passano in rassegna della Arbus fra le trame testuali l’infanzia e la famiglia benestante ma anaffettiva, il matrimonio con Alan, la separazione e la fase di lavoro che la rese celebre nell’affrescare la diversità del reale, disarmonica e concreta nella sua liricità, sino ad arrivare con una certa delicatezza alla morte, al suicidio, alla cessazione di un’esistenza caratterizzata costantemente da uno scarso senso di opportunità nei confronti del mondo.
La composizione drammaturgica risulta piuttosto equilibrata, gravata solo forse ad un certo punto da un’estenuazione che affatica ma cui non si può far a meno di riconoscere la volontà di interazione con la storia, con la personalità che la presuppone nonché la ricerca di reciprocità con lo spettatore come partecipe attivo del processo narrativo, convocato in prima persona a delineare alcune situazioni. Il testo denuncia sicuramente una tensione alla celebrazione gentile, sensibile e anti-idealistica del profilo umano e creativo dell’artista di cui è apprezzabile pure l’idea e l’ispirazione di partenza, non desueta e poco inflazionata fra le schiere di fantasmi ricorrenti che costellano le pièce imperniate su personaggi più o meno conosciuti della storia o della cultura occidentale. Stesso discorso vale per la regia che accompagna gli intenti di rappresentazione e prova l’incontro con una varietà di registri nel rapportarsi alla fruizione, con l’unica nota più evidente da segnalare per una certa didascalia nell’uso della musica. In onestà tuttavia, fra questi apprezzabili meriti di discrezione, a non convincere è la verve attoriale, la linea interpretativa che risente di una qualche forma di inseguimento del pathos non centrata, un’emotività in rosa un po’esasperata e zuccherosa: l’utilizzo manierato dei toni, una serie di sospiri o una coltre di espressioni quasi beatificate da sorrisi fiatati, tali da ricordare più facilmente i racconti di fiabe per bambini in tv che il ritratto di una donna continuamente tormentata dall’ottica reale e figurata in cui inseguire la ricostruzione del vero.
Un’indagine perpetua, necessaria a fare la differenza. Se, come diceva la Arbus, la fotografia è il segreto di un segreto, qui è rimasto qualcosa da celare, un alito di mistero mancato da ritrovare, da cercare ancora e ancora, sera dopo sera, replica dopo replica e quindi istante dopo istante, immagine dopo immagine, diversità dopo diversità.
Marianna Masselli
Visto in novembre 2013
In scena fino al 1 dicembre 2013 al Teatro Millelire [cartellone]
Roma
PROIBITO- DIANE ARBUS UN’ICONA DELLA FOTOGRAFIA
di Priscilla Giuliacci
con Priscilla Giuliacci
diretto Priscilla Giuliacci