HomeVISIONIRecensioniCashmere W A. Scavare sotto il suolo dell’assenza

Cashmere W A. Scavare sotto il suolo dell’assenza

foto Ufficio Stampa
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Legno grezzo e sacchi di plastica alle pareti, il buio smorzato da pochi faretti, un sottosuolo che rappresenta la discesa o la sosta negli inferi del dolore, nell’Ade di un senso di colpa abortito nel silenzio, nella ripetizione della necessità. Perché la perdita, l’amarezza di masticare un’assenza sono grido soffocato dalla pressione di un tormento che è calma apparente, bisogno di sfinire il corpo, di intontire il pensiero con qualcosa che ottenebri la percezione del vuoto. La miriade di ricordi in certi casi rischia di farsi troppo acida mentre corrode gli slanci di un bene puro, unico, talmente forte da sembrare una radice che nemmeno il passar del tempo riesce a divellere. Sensazioni riconoscibili da chiunque abbia attraversato la mancanza. Questa la suggestione che sembra connotare l’allestimento di Cashmere W A, testo di Leonardo Staglianò vincitore del Premio Scrittura Teatrale Diego Fabbri di Forlì, in scena per la regia di Maurizio Panici al Teatro dell’ Orologio fino al 26 ottobre.

L’Alaska fa da cornice alla vicenda disperata di un ragazzo poco più che diciottenne. La madre di Ryan è morta sei mesi prima cadendo in un lago ghiacciato, evento che al termine si rivelerà meno accidentale di quanto appaia. Dopo l’allontanamento del padre, spinto da una forma di sofferenza rea e arrabbiata, indefesso nella sua volontà di mantenere una promessa, il giovane si lancerà nello scavo di una galleria che conduca da casa sua sino ai confini del paese, per ritrovare la luce “catturando” l’Aurora Boreale come aveva fatto da bambino con la madre. Molte figure – lo zio, la sorella, il futuro marito, la zia – tenteranno di convincerlo a desistere, a sottrarsi a quella forma di auto-isolamento, di sospensione del procedere esistenziale. Tuttavia il protagonista si è costretto alla ricerca di una redenzione senza ritorno che acquista senso nel disvelamento finale e che coincide con l’incontro col padre: una convinzione tanto radicata da spingersi fino alla dipartita, quasi inseguita come si diceva, dalla vita.

foto Ufficio Stampa
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Il testo è denso, pieno di battute e con pochi silenzi: gioca la sua partita di comunicazione sul filo del parlato, a volte fin troppo prevedibile compreso il tema, più che sulla deduzione del non detto; tende forse troppo a illustrare e a spiegare, eccedendo nell’esposizione e nella sottolineatura, fino a perdere anche il sussulto che la conclusione dovrebbe generare. L’idea di fondo, seppur valida qualora sviluppata con maggior sintesi e direzione, si anestetizza nella pletora del racconto cui basterebbe la metà dei momenti e degli appoggi drammatici se riuscisse a focalizzare, oltre la facile marcatura della banalità emotiva, il nodo del messaggio nella sua concretezza. La voce di Jonny Cash segna i passaggi di scena, lo scorrere dei giorni e convive per tutto lo spettacolo con Chopin nominato con i suoi pezzi per pianoforte, ulteriore aggancio malinconico alla figura della madre. Il rischio è quello di scrivere la didascalia di una sensibilità tragica indotta con troppa facilità nella registrazione di un notturno mandata al fondo della messinscena, come a confermare una volta in più la lettura comune cui il gran sentimento della musica del compositore polacco è ormai soggetta. L’interpretazione lascia trapelare la preparazione di una centratura, la supposta messa a punto delle individualità, ma risente anch’essa della deriva e a tratti troppo si abbandona a un traviamento che risulta apparente più che assunto. La sensazione è che la recitazione si conceda a un contrassegno emotivo di stampo quasi televisivo, in cui anche i climax sembrano riempire gratuitamente l’azione più per esigenza performativa che per necessità di svolgimento.

«Non ci credo», diceva Stanislavskij ai suoi attori durante le prove quando aveva l’impressione che le cose e i fatti rimanessero in superficie, di modo da spronarli a scavare ancora, per raggiungere il fondo, scendere sotto terra superando i confini della maniera per toccare il bisogno di ri-vivere e riuscire a portare con sé lo spettatore.

Marianna Masselli

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Cashmere W A
di Leonardo Staglianò
regia Maurizio Panici
con Stefania Barca, Anna Favella, Alessandro Federico, Massimiliano Franciosa, Massimiliano Iacolucci, Tiziano Panici
scene Tiziano Fario
costumi Valentina Zucchetinterventi
visuali Andrea Giansantiluci, Marco Scattolini
produzione Ar. Tè Teatro Stabile di Innovazione – Centro Diego Fabbri di Forlì

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Marianna Masselli
Marianna Masselli
Marianna Masselli, cresciuta in Puglia, terminato dopo anni lo studio del pianoforte e conseguita la maturità classica, si trasferisce a Roma per coltivare l’interesse e gli studi teatrali. Qui ha modo di frequentare diversi seminari e partecipare a progetti collaterali all’avanzamento del percorso accademico. Consegue la laurea magistrale con una tesi sullo spettacolo Ci ragiono e canto (di Dario Fo e Nuovo Canzoniere Italiano) e sul teatro politico degli anni '60 e ’70. Dal luglio del 2012 scrive e collabora in qualità di redattrice con la testata di informazione e approfondimento «Teatro e Critica». Negli ultimi anni ha avuto modo di prendere parte e confrontarsi con ulteriori esperienze o realtà redazionali (v. «Quaderni del Teatro di Roma», «La tempesta», foglio quotidiano della Biennale Teatro 2013).

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