Il Giardino delle Esperidi è un importante festival che si tiene annualmente sui suggestivi sentieri del Monte di Brianza (provincia di Lecco), sotto la direzione artistica di Michele Losi. Giunto alla sua nona edizione, grazie al consueto contributo di Campsirago Residenza e della sua compagnia Scarlattine Teatro, ha offerto al pubblico dal 20 al 30 giugno una rassegna di spettacoli all’aperto di teatro, musica, danza e poesia, coinvolgendo compagnie sia italiane che europee e offrendo parallelamente alcuni workshop tenuti da artisti ospiti. Chi scrive ha avuto modo di visitarlo per una due giorni, nella quale sono andati in scena gli spettacoli Non voltarti indietro del collettivo artistico La confraternita del Chianti e I.P. (Identità Precarie) della compagnia ilinx, nonché alla performance di teatro-danza e musica What is the Weight of Your Desire? del gruppo ceco VerTeDance.
Di certo gli spettacoli visti non bastano a rendere conto con precisione dei contenuti del festival, che si è rivelato essere davvero ricco e interessante, tuttavia è forse possibile andare alla ricerca di un elemento in comune che unisca l’evento ai tre titoli succitati, diversi per linguaggio, stile, struttura drammaturgica e prospettive di senso, eppure vivi dentro una sorta di armonia. Quella che segue vuole dunque essere l’esplorazione di un’idea personale, un tentativo di riassumere alcuni significati attorno a una riflessione.
Due dichiarazioni dello stesso Michele Losi chiariscono il proposito centrale che anima Il Giardino delle Esperidi, il cui obiettivo è di «scoprire tanti volti di un unico paesaggio: della natura, dell’arte, di noi stessi. In cammino», evitando la facile attrattiva di ristabilire quel che è noto circa queste tre realtà, «perché per ciò che è conosciuto c’è sempre un tempo». Come a dire promuovere un movimento di nuove scoperte sul nostro Io e uno di fuga da quello che già conosciamo. Infatti, il noto può essere ristabilito anche da soli in ogni momento e in ogni luogo; di contro, lo studio dell’ignoto ha bisogno di spazi, tempi, collaborazioni che non sono sempre disponibili, e vanno perciò colte con urgenza quando si presenta l’attimo opportuno. E l’estate omaggiata dal festival costituisce forse il momento più decisivo, una stagione in cui germogliano i fiori più belli, con il calore e la cura necessari. Ogni spettacolo della rassegna può essere allora, in tale prospettiva, considerato come un tentativo di scandagliare – in sinergia con l’ambiente e con tutti gli altri artisti del festival – una parte del nostro Io, permettendole di scoprire qualcosa che la faccia crescere e maturare.
La parte studiata da Non voltarti indietro è certamente il cuore. Lo spettacolo presenta, infatti, una riscrittura del mito di Orfeo ed Euridice, portato però a lieto fine. Sulla scena, due personaggi: “lei”, che ha subito un’aggressione di stupro per poi rintanarsi nella sua casa spoglia e diafana come l’Ade, e “lui”, che cerca di portarla fuori alla luce del sole, facendole capire che il mondo esterno non solo non è tutto ostile, ma anzi meno pericoloso del mondo interiore. Dopo tutto, è proprio «qui» che si nascondono i mostri più terribili, ossia nel caso di “lei” la paura di re-incontrare il suo stupratore e i ricordi della violenza subita, che la spingono a tenersi sveglia con massicce dosi di caffè per non rinvangare in sonno l’aggressione, nonché a impregnarsi dell’aroma della bevanda per coprire l’odore dell’uomo. Dapprima maldestramente, quindi con sempre maggiore delicatezza, “lui” comincia a introdurre in casa oggetti, mobili e vestiti di colore rosso, liberando la donna dall’effetto falsamente rassicurante esercitato dal bianco dell’abitazione e spingendola a tornare tra i vivi. La lezione che l’Io apprende da questa vicenda drammatica potrebbe allora essere forse questa. Se si intende trasformare le ombre del cuore che annebbiano la coscienza e impediscono di amare in qualcosa di costruttivo per la persona, bisognerà sforzarsi di educarsi alla pazienza, alla fiducia, al coraggio di aprirsi senza dannose resistenze verso l’altro. Quest’ultimo non mancherà allora di accoglierci, invece di ricacciarci nella morte dei sentimenti con uno sguardo di sospetto o timore.
Il lavoro I.P. (Identità Precarie) conduce invece lo spettatore nella parte più labirintica dell’uomo: il cervello. Un attore e due attrici sono posti dietro una gabbia di ferro, rappresentando i pensieri che corrono alla rinfusa tra i larghi cunicoli encefalici di un giovane Hikikomori, vale a dire di un adolescente isolatosi dagli altri a causa delle eccessive pressioni sociali o familiari. I tre non-personaggi agiscono cercando di passare da un confuso “noi” a un distinto “io”, in modo da conferire contemporaneamente una riconoscibile identità al giovane e da aiutarlo a uscire dalla sua condizione. Nel momento in cui sembrano afferrare qualcosa capace di conferire loro concretezza, tuttavia sono subito costretti da un impulso misterioso a mutare totalmente aspetto, a calarsi in una situazione che non nutre alcun legame con quella precedente.
Nel frattempo, incurante del malessere dell’Hikikomori, la realtà circostante continua a trasmettergli informazioni sui suoi eventi, e con esse tutto il corredo di impegni / di preoccupazioni che lasciano ai suoi pensieri sempre meno spazio per la ricerca di sé. Ciò è reso sulla scena tramite la ricorrente e intermittente azione fisica di coprire le larghe maglie della gabbia con le pagine di alcuni giornali, che per un verso occlude del tutto la vista allo spettatore, per un altro finisce per soffocare del tutto la lotta del giovane per la propria identità. Attraverso questa vicenda particolare si viene così a sapere che il suo intelletto è per sua costituzione sospeso tra due infiniti. Da un lato, quello delle possibilità interiori, che rivendicano con pari forza di essere assunte, dall’altro quello dei fatti esteriori, che si bussano senza sosta alle sue porte. Se lo spettatore saprà compenetrarli insieme, ossia decidere chi essere per darsi dei criteri con cui selezionare le informazioni rilevanti della realtà in cui si trova a vivere, non potrà che consolidare una posizione soddisfacente nel mondo. In caso contrario, la sua mente finirà per ridursi in una condizione simile a quella del palco al termine dello spettacolo: scadrà cioè in un accumulo di notizie inerti e messe alla rinfusa, che nascondono dietro di sé un enorme vuoto.
Infine, What is the Weight of Your Desire? studia l’intricata parte sessuale dell’Io, chiedendo allo spettatore di misurare se e quale peso abbia per la vita. La risposta offerta dal gruppo di sole danzatrici-attrici e dal gruppo di soli musicisti è che non è possibile dare una soluzione univoca. Infatti, il desiderio sessuale potrebbe essere inteso in primo luogo come “un peso della vita”, come una forza che ci trattiene a terra per ricavare una banale soddisfazione fisica. Un provocatorio monologo di una danzatrice sostiene esplicitamente ciò nella parte in cui sostiene che le donne non siano altro che un «oggetto» da “massaggiare” e con cui “massaggiarsi”. Ma d’altro canto, il desiderio potrebbe venire più nobilmente concepito come “un peso per la vita”, perché capace di condurre alla bellezza e alla conoscenza. Il lavoro mostra di aderire a questa prospettiva quando rappresenta le attrici nell’atto di lanciarsi in splendidi passi di danza per trovare un orgasmo senza atto sessuale, così come attraverso il toccante assolo della statua che prende lentamente vita, mentre esplora col tocco il suo corpo prima gelidamente rigido. Questo momento trae per di più la sua forza teatrale perché dimostra, contro il monologo di cui si è detto, che non è necessariamente vero che il desiderio sessuale riduca la donna ad oggetto. Esiste almeno l’alternativa che esso possa trasformare un oggetto in donna, conferire alle entità inorganiche la forza dirompente solitamente posseduta dalle realtà organiche.
Cuore, cervello, desiderio sessuale sono dunque le parti dell’Io che i sopraddetti spettacoli sembrano aver indagato. Certo è che al festival va riconosciuto il raro merito di aver sottolineato come il lavoro congiunto degli artisti possa indagare l’uomo in tutta la sua ricchezza, studiarlo come un’entità integrale e contrastare tutte quelle forze, sempre più numerose di questi tempi, che tentano di frammentarlo o di imbruttirlo. Una tale prospettiva consente di ripensare al teatro come un piccolo orto, dove la fragile pianta umana può trovare protezione e le condizioni per raggiungere il proprio massimo rigoglio.
Enrico Piergiacomi