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Temperatura tropicale. Conversazione con Michele Di Stefano

Michele Di Stefano. Foto di Carlo Beccalli
Michele Di Stefano. Foto di Carlo Beccalli

Tra un’istallazione e uno scivolo dismesso,  all’ Angelo Mai Altrove Occupato abbiamo modo di chiacchierare con  Michele Di Stefano, direttore artistico della prima edizione di Tropici, che egli stesso definisce non un festival o una rassegna, ma  un flusso di eventi in cui poter entrare e collocare la propria colonna vertebrale…

Tropici giunge alla conclusione di questa prima edizione. Guardando oltre la linea calda dell’ultima intensa serata vorrei che mi raccontassi un po’ della possibilità di replicare questo appuntamento nel prossimo autunno, quali conferme ritroveremo e cosa invece ritieni debba esser ricalibrato.

L’ambizione è quella di farlo diventare un appuntamento periodico un po’ sregolato – nel senso non con una cadenza precisa, tenendo magari anche conto di ciò che accade intorno, non creando sovrapposizioni. Ma ciò che secondo me è importante è far passare l’informazione che a Roma esiste un luogo dove gli artisti possono cercare il dialogo non entrando in quell’ottica di consumo culturale che ha la sua eccellenza, il suo valore, in altri contesti. Vogliamo portare avanti un discorso differente pur cercando di crescere sul piano del supporto finanziario. Sapevamo di partire con una spinta tutta interna però avevamo già in mente un arco che cresce a lunga gittata. Questo modo di partire riflette già sulla possibilità che altre forze di sostegno entrino nel gioco. Si tratta di costruire uno scambio di questo tipo anche con realtà che, pur rimanendo luoghi occupati sia nella gestione politica che in quella urbanistica, si offrano a un discorso di programmazione culturale. L’Angelo Mai, al di là dei suoi significati sociali, è già uno dei luoghi importanti della programmazione romana. Per cui l’intreccio è stato inevitabile.

Come funziona Tropici a livello produttivo? Ho notato che non sono presenti sponsor o partnership. Si è trattato di una vostra scelta?

Come dice il filosofo “tutto ciò che non è immediato non esiste!” l’abbiamo prodotto in questo modo perché avevamo l’urgenza di farlo; è stata una cosa fatta in corsa, gli artisti hanno risposto immediatamente con una chiara affermazione di interesse, il che è un dato importante che fa riflettere sul bisogno – ed evidentemente anche su una mancanza – di un certo tipo di possibilità di discorso. Un’apertura che non è solo sullo specifico della danza ma è sulla performance a 360 gradi; non ha nessun taglio generazionale, non ha quindi i fondi destinati agli specifici anagrafici, non è under 35 o over 60. Le compagnie hanno avuto tutte il rimborso delle spese, più un gettone simbolico per ogni artista. È  chiaro che il primo numero di  Tropici è autoprodotto con lo sforzo di Angelo Mai, mk e di Pav, che hanno unito le loro forze insieme agli artisti. Siamo molto contenti per il gesto che ciascuno di loro ha fatto collocando la propria opera in uno spazio che di suo ha già una tensione di relazione e di rapporti. Questi oggetti non sono più importanti di quel rapporto, di quella tensione, quindi siamo tutti alla ricerca di una postura un po’ più permeabile.

Come mk non avete presentato nessuna performance direttamente. C’è un motivo preciso per cui non avete voluto ritagliarvi nessuno spazio?

Avere tanti artisti da sgranare in questa specie di rosario è stato complicato e, al di là dell’impegno sulla gestione che siamo spesso abituati a sottovalutare, mi è sembrato inelegante presentare subito un lavoro. Ma noi ci siamo. Tra l’altro, io sarei dovuto essere all’interno di un lavoro di Daniela Cattivelli che poi è diventato un’altra cosa e sarebbe stata dura immaginarmi su troppi fronti contemporaneamente. Per me questo è anche un gesto coreografico, coreografia espansa che riguarda il modo di stare nella performance e i membri di mk sono in giro a lavorare perché le cose scorrano.

Può una occasione del genere configurarsi come condivisione oltre che di spazi, oltre che di idee, anche di progetti comuni? Si sono generati incroci tra le compagnie?

Tropici intercetta delle cose che sono già nell’aria, per esempio il lavoro di Kinkaleri (Threethousand/All! ndr ) è in collaborazione con Daniela Cattivelli che ha già una performance da solista. Siamo tutti in dialogo, e chi, come Monica Gentile, è alla prima esperienza, è entrato immediatamente in relazione. Nella prossima edizione probabilmente chiederemo anche dei lavori specifici che nascano dal desiderio di mescolare le carte, di sottrarre a qualcuno il terreno sotto i piedi, di fare incontrare, di mantenere il malinteso dell’incontro, la possibilità dei fraintendimenti tra specifici che troppo spesso per avere un’efficacia devono essere chiusi in un blocco, in una fortezza. Ecco, si tratta di fare un lavoro sui confini, che sono anche i confini del singolo oggetto artistico, ma questo poi è un lavoro in divenire, vedremo.

C’è qualcosa di Perdutamente in Tropici?

Perdutamente è stata un’esperienza secondo me (secondo noi) seminale, nel senso che è stato un vero tentativo sulla pelle di tutte le persone che lo hanno abitato – ha avuto poi come risultato controversi ma comunque con un atteggiamento chiaro nei confronti della voglia di rischiare, e lì dentro sicuramente c’erano dei contenuti e delle visioni che ci sono anche qui. Questo è certo. Del resto la spesa energetica e umana degli artisti che stavano dentro Perdutamente è stata forte e il desiderio di continuare a condividere quell’avventura con le persone che poi per forza di cose si sono lasciate ha anche prodotto il desiderio di mettersi in gioco su un tipo di situazione diversa dal continuare a produrre spettacoli, vedi la performance di Tony Clifton Circus, ma cercando di ritrovare quelle facce, quegli sguardi che poi vedo qui in giro nel pubblico e che probabilmente poi in futuro saranno di nuovo dentro.

Diverse performance in programma utilizzano una disposizione frontale, rendendo più complicato l’attraversamento dello spazio performativo da parte del pubblico. Come leggi questa direzione?

Il tipo di direzione artistica che io sto cercando di impostare non prevede che io mi occupi dei contenuti e dei singoli spettacoli, e quindi se ciò è evidente è probabile sia il frutto di una scelta interna dei singoli artisti. Per me lo spettacolo è una questione di tempo più che di spazio, per cui la questione che tu condividi veramente con il pubblico è quella della durata. I miei venti minuti sono l’unica cosa che ho in comune con te, quei venti minuti in cui dobbiamo stare insieme. Il tipo di frontiera, o di energia, di attraversamento, per me riguarda sempre questo atteggiamento nel tempo e non tanto la collocazione o la possibilità di attraversamento anche se io, personalmente, nel mio lavoro, in un progetto come Grand Tour non faccio altro che cercare il buco all’interno di una performance per infilarmici.

Quale potrebbe essere per te una linea di demarcazione tra performance e danza?

Senza rinunciare all’elemento scritturale, al geroglifico del gesto e dell’anatomia, in questo momento per me coreografia vuol dire fare in modo che la danza si occupi del dove e del quando; cioè di dove collocare la scrittura facendo perdere interesse sulla scrittura in sé e quindi facendo acquistare interesse nel corpo che sta valutando quali siano il momento, il tempo, lo spazio giusto per agire. Con Clima ho sperimentato che è molto facile scambiare il performer con lo spettatore. Questo senso balistico dell’esistenza, andare a tempo, trovare il ritmo vuol dire scegliere il timing giusto per fare quella cosa, possiamo dire di averlo sperimentato tutti anche nella vita quotidiana. Quindi la danza perde quel design coreografico dell’anatomia in funzione di una scelta legata al tempo.

L’efficacia senza l’effetto.

Esatto. E poi è anche vero che io ho delle mie ossessioni – i coreografi sono tutti ossessionati! – ma non necessariamente sono riflesse nei lavori che vengono presentati qui. Ci sono anche lavori molto distanti dal mio modo di intendere la performance lo spettacolo, ma anche questo fa parte del gioco, nel senso che la selezione non rispecchia necessariamente il mio desiderio di spettatore, cioè quello che in questo momento mi interessa è costruire una permeabilità d’atmosfera. Perciò c’è questa insistenza sul clima, sui tropici, su questo apparecchio meteorologico della performance.

Viviana Raciti

Tropici fino al 7 giugno 2013 ad Angelo Mai Altrove Occupato [programma]

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Leggi anche l’intervista di Rossella Porcheddu sul Tamburo di Kattrin

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Viviana Raciti
Viviana Raciti
Viviana Raciti è studiosa e critica di arti performative. Dopo la laurea magistrale in Sapienza, consegue il Ph.D presso l'Università di Roma Tor Vergata sull'archivio di Franco Scaldati, ora da lei ordinato presso la Fondazione G. Cinismo di Venezia. Fa parte del comitato scientifico nuovoteatromadeinitaly.com ed è tra i curatori del Laterale Film Festival. Ha pubblicato saggi per Alma DL, Mimesi, Solfanelli, Titivillus, è cocuratrice per Masilio assieme a V. Valentini delle opere per il teatro di Scaldati. Dal 2012 è membro della rivista Teatro e Critica, scrivendo di danza e teatro, curando inoltre laboratori di visione in collaborazione con Festival e università. Dal 2021 è docente di Discipline Audiovisive presso la scuola secondaria di II grado.

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