Nessun piazzato di luce abbacinante sparato in scena, nessuna musica punk o grunge schiaffata nelle orecchie, non ancora. Dopo una lunga attesa a sala già mezza spenta, in attesa dei soliti ritardatari, la Lolita di Babilonia Teatri si concede un incipit eccezionalmente poetico. Un occhio di bue mobile conduce dal fondo della platea al centro del palco la piccola Olga Bercini, che fa volteggiare una farfalla giocattolo tra pollice e indice e la appende a un gancio portato giù dal soffitto, prima di prendere posto a gambe incrociate, testa bassa. Sul telo nero alle sue spalle le parole compariranno, emergendo dal buio, composte in tempo reale da un terminale in regia. Il testo scarno e arrabbiato procede per invettive, elenchi e per (quasi sempre) sottili variazioni di forma e fonetica, graffiando la superficie dei concetti fino a far sanguinare via luoghi comuni, stereotipi e usando un potente scarto ironico per vincere la vertigine moralista e tramutarla in ruggito critico. Queste, insieme alla messa in guardia circa la totale assenza di recitazione nel senso tradizionale del termine, potrebbero essere le prime indicazioni per avvicinarsi all’estetica di Babilonia Teatri, al secolo Enrico Castellani e Valeria Raimondi, esplosi ormai cinque anni fa con Made in Italy, il loro terzo lavoro, che aveva vinto il Premio Scenario 2007, era stata la miglior novità italiana/ricerca drammaturgica agli Ubu 2008 e il preferito dell’unica edizione di Vertigine nel 2010.
In questo nuovo lavoro, coprodotto dal Napoli Teatro Festival con il sostegno di Operaestate Festival Veneto, Babilonia Teatri non rinuncia a puntare una lente sul presente, cosa che di per sé oggi rappresenta l’unico requisito irrinunciabile di un teatro che conti e sembra esplorare un ragionamento sottile: il celebre personaggio della ninfetta amata dal professor Humbert Humbert viene sottratto al celebre romanzo di Vladimir Nabokov per poter essere restituito agli spettatori non tanto come un simbolo di iniziazione alla vita e di educazione alla percezione della bellezza, quanto come perversione fondamentale cui il mondo contemporaneo non potrebbe ormai a nessun costo rinunciare. Lolita è una farfalla, Lolita è un sogno, Lolita è un incubo. Ma – dichiara la ragazzina quando parla senza intonazione nel microfono – Lolita non è lei, di lei si racconta la storia. A questo sfacciato diario segreto manca – programmaticamente – il trasporto emotivo, la dolcezza che sgorga via dalla bambina come sangue da una ferita o come gli umori che la faranno donna. Humbert scompare dentro un’allegoria estrema, diventa il nome comune (mai davvero pronunciato) per tutta una collettività mediatica che osserva e per la quale quell’innamoramento senza difese e reo confesso diventa necessario perché imposto dalle stigmati di una società che di per sé impone i propri modelli. Quella società che, tra le canzoni trash-pop cantate in playback, hard rock al femminile e un tappeto sonoro che si inserisce qua e là con scrosci, fruscii e latrati della natura più selvaggia, dichiara tutta la sua brutale contraddizione.
C’è poi, sopra ogni altra cosa, l’esposizione del corpo: Olga salta la corda, allena pugni e calci nelle forme delle arti marziali, indossa vestiti “à la Marilyn” su cui il trucco colerà come sangue, il sangue come trucco, fino a un terribile epilogo – cruento ed estremo nel tema e dei dettagli – affidato di nuovo, nel silenzio, alle lettere scritte sul telo. La sua è una prova coraggiosa, quello di Castellani e Raimondi somiglia a un tentativo di conservare i principi della propria estetica ridistribuiti su altri, pur minimali, elementi. Un tentativo che vorremmo immaginare come ulteriore ricerca e non come scappatoia. Abbandonata la scelta del testo scandito all’unisono da voci aggressive in favore di un microfono o della parola scritta, la tensione scenica si regge in gran parte sulla presenza comunque insolita della bambina, che però pone sempre il pubblico sul filo di un’adesione incontrollata. In questo modo è dietro l’angolo lo scivolone dentro una deriva moralista – non più protetta dall’ironia e dallo stile brutale e punk – o nell’esposizione della realtà direttamente per concetti suggeriti ma mai davvero discussi, tra una parola che non vuole rinunciare alla sua (quasi sempre pregevole) sintesi poetica e immagini che sembrano voler conservare un’estrema essenzialità, in una contraddizione tra il simbolismo sfrenato e un raffinato in yer face.
Nell’assenza di un sistema teatrale organico e per fronteggiare la tendenza a un’arte divisa per quartieri, Babilonia come altri gruppi pronti a osare devono costruire un percorso che, se anche basato sulla frattura totale dei codici, venga però reso rilevante da una ricerca chiara e costante, aperta a mettere continuamente in discussione la stessa radicalità di quelle scelte, proprio per evitare che esse finiscano per fossilizzarsi in un altro codice. Magari nuovo (finché non invecchia), ma che sempre codice è.
Sergio Lo Gatto
Visto al Museo delle Ferrovie di Pietrarsa, nell’ambito di Napoli Teatro Festival Italia 2013
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LOLITA
di Valeria Raimondi ed Enrico Castellani
con la collaborazione artistica di Vincenzo Todesco
con Olga Bercini
e con Babilonia Teatri
luci e audio Babilonia Teatri/Luca Scotton
organizzazione Alice Castellani
grafiche/elaborazione video Franciu
foto Marco Caselli Nirmal e Sara Castiglioni
produzione Fondazione Campania dei Festival – Napoli Teatro Festival Italia in coproduzione con Babilonia Teatri
con il sostegno di Operaestate Festival Veneto
residenza artistica Cà Luogo d’Arte
nuova produzione 2013