Strappiamo un lembo alla regola pubblicando su queste pagine un’intervista pensata e strutturata dalla redazione del nostro Teatro e Critica LAB a Teatri di Vetro 7. A due giorni dalla chiusura ufficiale del festival 2013, abbiamo incontrato per una conversazione la direttrice artistica Roberta Nicolai.
Nella tua esperienza curatoriale è il linguaggio o le urgenze a rendere contemporaneo uno spettacolo? Non c’è altro fattore che giustifichi se non l’urgenza. Altrimenti perché lo fai? Rispetto al resto delle produzioni, la presenza visibile di un’urgenza marca già una distanza. Quanto sei vicino alla tua urgenza è un elemento di valutazione che riguarda già la poetica, rientra nell’embrione del linguaggio, in qualcosa che si fa poetica. È chiaro che la distanza di ogni gruppo dalla propria urgenza è, anche qui, diversa, perché occorre un percorso e un tempo di ricerca per arrivare in prossimità della propria urgenza, che non può essere vaga. Magari si manifesta all’inizio come una visione, poi il lavoro avvicina la tua urgenza, fino a mostrare la lucidità e la prossimità. L’elaborazione di tutti gli step tecnici e metodologici che riguardano quell’urgenza è attinente a tutto ciò che comincia poi a diventare linguaggio. Non è qualcosa di statico, ma organico, costruito passo passo, anche durante la stessa vita artistica di un gruppo. Poi il decorso di quella commistione tra urgenza e linguaggio fa parte della riuscita del lavoro stesso. E in questo l’errore è qualcosa che va sempre osservato, considerato, preservato. Tutti gli artisti devono farlo, a costo di sbranare i detrattori di quella poetica dell’errore. Perché questo è un periodo troppo legato all’efficienza, quando invece bisognerebbe tornare a ricercare una efficacia. È un periodo che è stato improntato quasi totalmente all’efficienza, in cui dunque anche gli errori non sono stati perdonati – tema molto vivo tra gli artisti. Un oggetto meno riuscito, magari meno maturo, oggi ti compromette e questa tendenza deve essere assolutamente ostacolata, combattuta: l’errore deve essere rivendicato, indipendentemente dall’oggetto presentato; un risultato più o meno riuscito deve essere compreso e mostrato, soprattutto nei percorsi del contemporaneo.
Il passaggio alla scena ha modificato in te le posizioni che avevi assunto in fase di selezione? Che cosa ti ha sorpreso? Quest’anno ci sono state più sorprese in negativo piuttosto che in positivo. Mi sono resa conto – quest’anno ancor più che gli altri – che il palco del Palladium per Teatri di Vetro viene vissuto dagli artisti con troppa ansia, si crea troppa aspettativa nei confronti di una sorta di banco di prova. Ho visto tanto nervosismo in più, quella magia che in altri casi ho visto accadere grazie al luogo e alle reazioni del pubblico, quest’anno è stata cancellata da una sostanziale rigidità. Nel rapporto tra scena e sala ho visto accadere meccanismi piuttosto difficili per gli artisti da assorbire durante la performance. Ad esempio la glacialità di Quotidiana.com, questo loro essere terminali, quasi in fin di vita (che ovviamente comunica l’esatto opposto, che decanta qualcosa di salvifico) ha fatto le spese dei paletti imposti dalla scaletta. Ho provato a tutelarli mettendoli dopo Cosentino, cercando di sfruttare la sua popolarità. In quel caso dunque c’è stato anche il problema di dover in qualche modo rispondere ad alcune aspettative energetiche che non hanno a che fare con il loro linguaggio. E quella cifra stilistica studiata per il loro spettacolo si è risolta in qualcosa di “troppo monotono”.
Che tipo di feedback hai ricevuto da parte del pubblico? Il pubblico sembra ancora più generalista del solito. Il fatto di allargare la comunicazione a tanti ambiti diversi, invita in sala non più solo i soliti cinquanta spettatori che seguono la scena contemporanea ma anche altra gente che viene da qualsiasi ambiente. Ma difficilmente trovo interessanti e significativi i commenti e i giudizi. È un feedback vario, muta momento dopo momento e cerchi di decodificarlo innanzitutto a partire dagli applausi, codice eloquente della vera e propria restituzione del pubblico. A volte alcuni spettacoli necessitano di una sensibilità particolare. Ma ogni scelta ha la propria motivazione e il suo rischio, condiviso con gli artisti, non mi occupo di redigere un palinsesto generalista. Tutti insieme compongono un punto di vista, una serie di prospettive da seguire, invitano a disegnare una mappa aperta. Ogni singola scelta è una storia a parte, perché con gli artisti cerco di avere un rapporto personale, non di riempire un contenitore ma di provare a osservare quel particolare percorso e di capire se esso possa essere aiutato da questa opportunità, da questa occasione data. Provare a creare i presupposti per un incontro e osservare che cosa esce fuori. Magari niente, ma se quella occasione non la dai – come non la dà nessuno – non accadrà mai niente.
Rischiare, dunque. Se volessimo dare una lettura di questo festival potrebbe essere questa? Un campo rischioso sia per chi lo pensa, sia per chi lo agisce, sia per chi lo guarda. Certo. Perché l’arte se non è rischio non è nulla. Lo spettacolo migliore in assoluto senza rischio è inutile. Su questo non ho dubbi. L’arte è rischio per tutti. Altrimenti non è arte: è confezione, intrattenimento, meraviglia, celebrazione. E in un festival così il rischio è davvero alla base. Anche la critica o comunque chi lo guarda, dovrebbe sempre di più masticare il fare. Per rendersi conto di che cosa significhi davvero il lavoro scenico. Perché è una cosa che non si trasferisce. Credo che quello che sfugga sia il lavoro che sta dietro ai paradigmi solo astratti.
Allo Sharing Idea di Waiting for DNA si raccontava di una fantomatica coppia abbiente che si era offerta di finanziare l’acquisto di materiali per uno spettacolo di danza. Pensi che il teatro contemporaneo debba mettersi in cerca di alternative per la propria sostenibilità? All’Opificio c’erano anche musicisti, quelli che avevano aperto il festival al Forte Fanfulla. E c’era gente, oltre le aspettative. È importante che anche gli artisti capiscano che è arrivato il momento di cercare anche altrove. E mi riferisco sia alle risorse che ai luoghi. Il contemporaneo non ha mai avuto una vera e propria tutela, ma mai come ora è svantaggiato. Quest’anno abbiamo esattamente metà delle risorse dello scorso anno. Trentasei situazioni diverse con cinquantacinquemila euro non è possibile. Per riuscire a offrire quella famosa opportunità ho dovuto investire del denaro mio personale.
E un’occasione come questa potrebbe contribuire alla sostenibilità? Se ci fossero le risorse, sì. Un operatore deve di certo andare in cerca delle risorse, ma ancor di più stare in ascolto delle urgenze da cui quelle risorse sono richieste. Adesso siamo di fronte a una grossa difficoltà, a partire dalle grandi strutture, fino ovviamente a esperienze come questa. Di contro, mollare – che è la tentazione della maggior parte di noi, in questo momento – significherebbe rinunciare a una battaglia molto chiara, una battaglia che richiede un tentativo di azione compatta per restituire al contemporaneo uno spazio. Per darglielo, una buona volta, forse per la prima volta. Se non diamo ora uno scarto di comunità avremo perso. È difficile, perché ognuno ha le proprie prospettive, ma di questo si tratta, di esplicitare il conflitto, di rendere aperte le differenze. Si tratta di potersi immaginare liberi dall’omologazione, altrimenti che differenza farebbe? Se non guardassi concretamente nella realtà della cosa e non consideriamo quelle differenze, tra noi e il pensiero omologato non c’è nessuna differenza.
Redazione Teatro e Critica LAB @Teatri di Vetro 7
[Sara Benvenuto, Pamela Del Grosso, Miriam Larocca, Gessica Longo, Marcella Santomassimo, Francesca Trapè. Un grazie a Paolo Matteis]
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