«Ma voi siete quelli del gas?». Questa frase, pronunciata da un signore sul marciapiedi lungo la Via Francesco Cigna che attraversa la Dora e porta verso il centro, accoglie il nuovo Torino Fringe Festival, alla sua prima edizione in una città con grandi tradizioni borghesi e che tutti pensavano (e pensano) inadatta alle rivoluzioni. Scambiati per “quelli del gas”, per intenderci, solo perché ci si trovava a girare con un cartellino appeso a una stringa arancio, scantonando di qua e di là dei ponti e dispersi lungo quartieri animati da grandi differenze sia strutturali che ambientali. È forse proprio questo il valore primario di un’esperienza come quella del Fringe torinese: il vagabondaggio artistico, la peregrinazione culturale, inducono a distendere la voce del verbo “abitare” lungo un’area estesa, cercando di costruire percorsi prima impensabili. Eppure ci voleva poco, a pensarli. In una città universitaria e di grande tradizione culturale, di cui si parla come della Bologna degli anni Novanta, un progetto simile era forse nell’aria perché avessero voce gli innumerevoli gruppi di ragazzi assiepati da Piazza Vittorio a Oltrepò, lungo i portici salendo fino a Piazza Castello, perché godessero delle larghe aperture da cittadini e non da ospiti in un tinello salottiero e un poco stanco.
Chi ha organizzato tutto questo – pochi ragazzi capitanati da un sognatore rilassato e concreto di nome Inti Nilam, anni venticinque e torinese da soli quattro – ha saputo, con un finanziamento equivalente a una pacca sulla spalla e invece mille attività di autofinanziamento prima e durante il festival (e senza richiesta di partecipazione economica agli artisti), intercettare un’energia incastonata nelle nicchie del porticato e lungo le banchine nascoste dei Murazzi, nei tanti locali e centri culturali già durante l’anno fulcro di un movimento sotterraneo che produce e gode di ottima salute, ha saputo cioè fare quel molteplice lavoro che sanno fare gli ideatori, curatori, direttori artistici: captare, immaginare, innescare un processo di cambiamento che diventa rivoluzione solo là dove di rivoluzione c’è bisogno. Si immagina una rivoluzione ad esempio nel luogo dove già n’è scoppiata una? È impossibile, inimmaginabile. E invece Torino sta chiedendo a voce alta questo mutamento, lo si è visto nelle sedi del festival, grazie a ondate di pubblico che ha abitato i locali fin dai primi spettacoli alle 16.30, stimolando la propria curiosità fino a restare perché l’accoglienza fosse completa, magari per una birra o per mangiare a prezzo festival, magari per lo spettacolo successivo.
E voi? Ci siete? Ripete il lancio sulla copertina del fitto programma. Ci siamo, ci siamo svicolando per l’intera città (alla fine, calcoli alla mano, i km percorsi a piedi sono stati cinquanta in quattro giorni), con in mano una cartina ipotetica senza nomi delle vie e piccole indicazioni prese lungo il cammino, ci siamo guidati dai volontari in bicicletta come a disegnare i percorsi, afferrati per un lembo della giacca e spinti in scena per fare da Sancho a un Don Quijote che non è pazzo, ma è attore. Ci siamo, dunque, a rintracciare le oltre cinquanta compagnie da tutta Italia in contemporanea negli spazi popolari (o forse meglio dire: popolati) del Cecchi Point, nella cantina dello Spazio Ferramenta, nel retrobottega del Circolo Rainbow, sull’altare di Zona Teatro a San Pietro in Vincoli, nell’Angolo del Pubblico sul palchetto del bellissimo Circolo Oltrepo, nel rustico-chic del Caffè del Progresso, nei tanti spazi esterni del programma Tostreet, al Tofringe_Central di Via Sant’Agostino per gli incontri di mercato e dibattito con operatori e programmatori. Ci siamo e, con tutta probabilità, ci torneremo.
«Ma voi siete quelli del gas?». Torino è una città piena d’aria, sbalorditive le estensioni delle sue piazze. Tofringe è “to fringe”, andare verso quella frangia che ha appena iniziato a dilatarsi, riprendersi spazi urbani per il tempo di un’ora appena, ma tanto basta all’effimero per imporsi, al pensiero volatile perché si faccia duratura non la sua presenza ma la sua persistenza, all’arte per dimostrare di esistere proprio là dove in pochi, mancante la figura, sanno scorgerne la spirito. E allora sì, caro signore che passeggi in direzione opposta: siamo noi, quelli del gas. Ma non c’è nessun bisogno di mettersi mascherine, chiaro?
Simone Nebbia