John-John, Odin e Immanuel sono tre cani impegnati nella severa selezione per entrare a far parte del corpo speciale K7, una sorta di commando di eccellenza anti-terrorismo composto dai migliori tra i peggiori “amici dell’uomo”. Rispettivamente, un giovane e ingenuo cocktail di razze aggressive tutto muscoli e niente cervello, uno scaltro mercenario dal fiuto infallibile e un’ex vittima dei combattimenti clandestini, che è stato poi cane guida e ora è un filosofo che dispensa citazioni di Kant e Hobbes, dalla neutralità di un aplomb malinconico à la Marlon Brando. Il vecchio, zoppo e butterato mastino Cassius li sottopone a una serie di prove, rinchiudendoli in una cella di vetro, dove può osservarne le reazioni in questo gioco al massacro, in vista di un emblematico confronto finale, quando verranno messi tutti e tre di fronte alla scelta fondamentale tra violenza e diplomazia, verso l’utopia morale della “pace perpetua” kantiana, quella del cimitero.
Questa la trama de La pace perpetua, del drammaturgo spagnolo Juan Mayorga, al Teatro Belli di Roma nella versione italiana diretta da Jacopo Gassman.
Ha ragione il regista, quando nelle sue note parla di una capacità poetica che rende singolare la scrittura di Mayorga, al contempo «classica e contemporanea», espressione di quella indubbia verve che pone su un ottimo livello certa drammaturgia di oggi firmata da spagnoli e sudamericani (o “ultraspagnoli”, come li chiama Andrea Porcheddu). Una scrittura secca ed essenziale è quella di Mayorga, immersa in atmosfere molto europee, figlie di Pinter, di Beckett, di Kafka; la sua Pace perpetua disegna un’allegoria stilizzata mettendo tra le fauci taglienti dei cani randagi i rovelli socioculturali dell’uomo di oggi, con relativi psicologismi di maniera. Somiglia un po’ alla cupa fantapolitica di Edward Bond ed è forte la strizzata d’occhio al George Orwell di 1984. Gassman sembra voler radunare sul palco tutte queste suggestioni, aumentandone l’espressione con l’uso di orpelli sonori e illuminotecnici che cercano l’effetto senza quasi mai trovarlo davvero. Ad accompagnare l’azione (o meglio, il dialogo, vista la stasi generale) stanno lì pronti il tappeto sonoro metallico e ruvido del film di fantascienza e l’immancabile luce livida che esplode in flash e in accessi strobo. La grande teca di plexiglass in cui si muovono gli attori cerca di essere incombente e risulta invece ingombrante (almeno per la piccola sala del Belli) e i movimenti costretti non sono quelli di personaggi oppressi dalla claustrofobia, ma quelli di attori resi goffi dallo spazio troppo esiguo.
Il testo, che pure conserva – in una buona traduzione – un’ottima scioltezza di dialoghi, contiene non pochi trabocchetti stilistici: il presupposto allegorico che sostituisce cani a esseri umani è un dispositivo a priori, una semplice convenzione che lascia alla regia il compito di dar forma a quell’ambiguità. Su questo punto Gassman non riesce purtroppo a imporre una scelta chiara e rigorosa: un reale studio sul corpo manca quasi del tutto o comunque non emerge con forza sufficiente a far da specchio fisico a quel presupposto intellettuale che vive dentro il testo di Mayorga. In questi casi occorre scegliere da che parte stare: far parlare la pagina e usare la convenzione dell’allegoria come qualcosa di già dato (ammettere che l’uomo che parla sia un cane con la stessa nonchalance con cui nella fantascienza ammettiamo che un’astronave voli alla velocità della luce) oppure trascinare nel corpo e dunque nello spazio i segni di quella contraddizione di fondo. Gli attori (Pippo Cangiano, Enzo Curcurù, Giampiero Judica, Davide Lorino, Danilo Nigrelli) stanno però proprio nel mezzo, incapaci da un lato di soffocare certi goffi cliché come l’ansimare con la lingua di fuori o il digrignare i denti ringhiando e dall’altro di trovare efficaci vie alternative. Forse solo Nigrelli prova davvero a trovare una via più stilizzata, correggendo lievemente posture e andature con particolari stranianti e lasciando invece intatta la voce. Tuttavia il suo lavoro non è sostenuto da quello degli altri.
Di certo l’impostazione generale risente – come in tanti altri lavori omologhi, oggi – in maniera certe volte irritante dell’influenza del cinema e della fiction (vedi anche l’uso non giustificato dei microfoni), delegando a risatine malefiche, all’aggrottarsi delle sopracciglia, a sguardi che puntano in basso a destra, a una dizione sussurrata e biascicata quelle emozioni che il teatro vorrebbe fossero nella potenza viva del corpo e della sua relazione con gli altri elementi in scena e con lo spettatore. «Il teatro accade nel pubblico. Non nei ruoli ideati dall’autore. Nemmeno nella scena che occupano gli interpreti. Il teatro accade nell’immaginazione, nella memoria, nell’esperienza dello spettatore». A parlare è proprio Juan Mayorga.
Sergio Lo Gatto
in scena dal 9 al 20 gennaio 2012
Teatro Belli [cartellone]
Roma
LA PACE PERPETUA
di Juan Mayorga
con (in ordine alfabetico) Pippo Cangiano, Enzo Curcurù, Giampiero Judica, Davide Lorino, Danilo Nigrelli
regia di Jacopo Gassmann
scene Alessandro Chiti
costumi Sandra Cardini
disegno luci Gianni Staropoli
suono David Barittoni
movimenti Marco Angelilli