C’è qualcosa di inquietante nel sistema culturale di questo paese che fa pensare a quando i bambini più agili e scaltri, di fronte a un cancello da scavalcare, si concedono uno scarto solidale per aiutare quelli che non riescono, o meno vogliosi di tentare per avere altre doti che l’agilità; succede così che gli fanno la “scaletta”, ossia pongono le mani incrociate a mo’ di gradino per facilitare il salto. Ma il problema non è questo, ce ne fossero di “scalette”, il problema è che il cancello dovrebbe essere accessibile o meglio, là dove si vuole facilitare l’ingresso, ogni tanto dovrebbe essere aperto. E allora se Michele Riondino – componente storico di quella compagnia romana che risponde al nome di Circo Bordeaux e che dai primi anni Zero trascorsi negli spazi sociali si riconosce nella drammaturgia di Marco Andreoli – ora è un attore affermato dai tanti ruoli convincenti per il cinema o la TV, la sua “scaletta” trascina la compagnia dove non era mai stata prima, di fianco a produttori capaci di rischio e di fronte a osservatori teatrali prima disattenti. Ma, come riflette anche lo stesso Riondino in un’intervista di qualche giorno fa: è davvero questo il modo per attestare le qualità? Ecco, “qualità”. Parola assai poco considerata e che troppo volte – per la politica modaiola di questi anni prima di tutti – è stata confusa con “merito”. E qualità non ne manca in questo Siamosolonoi, testo di Marco Andreoli (primo titolo Acqua dolce) che Michele Riondino e Maria Sole Mansutti – grazie all’impegno produttivo di Artisti Riuniti e Palomar – portano in un Piccolo Eliseo che non ha ancora terminato le poltrone della sala grande da intestare previa donazione di almeno 30 euro. Che mai saranno, oggi, 30 euro… per una poltrona dell’Eliseo questo e altro.
Una coppia, verrebbe da dire due ragazzi che compongono una coppia, ma questa sarebbe la visione del solo Savino, mentre Ada non farebbe distinzione e direbbe: una coppia. Una casa attorno li sovrasta, una cucina si impone sui due individui e li schiaccia silenziosamente un giorno dopo l’altro: mobili ed elettrodomestici enormi che entrambi, in abiti e giocosità infantile, non arriveranno mai a guardare dall’alto, non riusciranno a metterci le mani sopra e a dominare la loro vita adulta. La casa e l’esterno minacciano il loro candore, in termini spaziali l’una – appunto la sovradimensionalità degli elementi nella scena curata da Fabrizio D’Arpino – e con squarci sonori di una guerra fuori le mura che bisogna attendere finisca. Ma, c’è un ma. Savino sente la necessità di condividere l’interno con l’esterno, vivere fuori l’amore di dentro, amare la sua Ada alla luce e con ciò finalmente uccidere il bambino fuori età che non gli corrisponde più, superare la paura di diventare grandi evitando di fingere che lo siano diventati. Ada no, il suo concetto d’amore finisce al possesso e si misura in un perimetro casalingo, per lei rimanere è avere, uscire è disperdere. Ma l’amore, Ada, non è aria. Pur che d’aria si nutre. Ma che sia fresca e in continuo ricambio, non certo quella asfittica di un interno trincea. Fuori c’è la presunta guerra civile, ma dentro? Non ce n’è forse – silenziosamente – un’altra?
Il testo di Andreoli conserva nella forma dialogica quel carattere geometrico della drammaturgia che tuttavia riesce a non rendere astringente e ad accrescere di una venatura fiabesca, ben servita dai costumi molto belli di Eva Nestori e dai due attori (che curano la regia firmandola collettivamente con il nome della compagnia) che non “caldeggiano” il testo ma tentano per quanto possibile di “strattonarlo” con un’intensa fisicità, del corpo e della parola. La loro partitura fisica – carattere già riscontrato in precedenti spettacoli del gruppo, come ad esempio Singapore – confronta la giocosità circolare del dialogo e della combinazione dei corpi con una sensazione sinistra e mutante ben espressa dal tessuto sonoro di Teho Teardo. Ne nasce dunque un lavoro scenico accurato, di certo da rivedere negli equilibri fra le parti drammaturgiche superflue ai fini del racconto e che intrecciano fili a volte inconcludenti per lo sviluppo spettacolare, ma capace nei suoi punti migliori di rendere teatrale una dialettica umana che a tutti appartiene, dove tutti abbiamo riconosciuto momenti in cui la vita poteva prendere questa o l’altra via. Farne teatro è difficile e questo spettacolo sconta parzialmente la difficoltà, si può giusto tracciarne il segno che intaccherà l’animo sensibile di chi si tenderà in ascolto, guardare in silenzio con gli occhi di quel pesce rosso (enorme!) nella sfera a centro scena, che aspetta di conoscere il nome che gli daranno fra quelli proposti: Incessantemente, Siamosolonoi, Libertà. E conoscere così – dal proprio nome – il destino muto di chi gli parla Incessantemente dalla sua presunta Libertà, gridandogli che “Siamosolonoi”, poco fuori dalla sua Acqua dolce.
Simone Nebbia
Al Teatro Piccolo Eliseo Patroni Griffi fino al 20 gennaio 2013
SIAMOSOLONOI
di Marco Andreoli
con Michele Riondino e Maria Sole Mansutti
disegno luci Luigi Biondi
musiche originali Teho Teardo
scene Fabrizio D’Arpino
video Marco Quintavalle
trucco e costumi Eva Nestori
attrezzista di scena Francesco Traverso
aiuto regia Alessio Piazza
regia Circo Bordeaux
non ho capito nulla di questa critica….dove voglia arrivare… e anche la prima parte…che problema c’è se Riondino usa a buon fine la sua popolarità per portare avanti la sua idea artistica?…direi ammirevole e coraggioso… boh!
Gentile Bea, cosa ti fa pensare che sia un problema? Non c’è nulla di male, ho cercato soltanto di mettere in risalto che troppo spesso sia necessario avere successo altrove per veder riconosciuti i propri sforzi artistici, come questo caso.
In relazione al fatto che tu non abbia capito nulla di dove voglia arrivare la critica non posso aiutarti, a meno che tu non mi voglia indicare le parti incomprensibili e permettermi così di specificare meglio.
Grazie, comunque, per avermi fatto esplicitare la questione di sopra. Forse non si capiva bene.
SN