«Il teatro che posto occupa nella cultura globale? Io non credo sarà la cultura di massa a salvare il teatro». Queste parole sono di Attilio Scarpellini, pronunciate per aprire gli interventi del convegno Qui&Ora svoltosi a Scandicci in occasione di Zoom Festival, per idea e desiderio partecipato del suo direttore Giancarlo Cauteruccio. Il convegno aveva come oggetto il teatro contemporaneo, ma ci si è trovati a parlare di critica con tutti i presenti convocati (oltre me Ilaria Fabbri, Antonio Audino, Piersandra Di Matteo, Pietro Gaglianò, Graziano Graziani, Marco Palladini, Andrea Porcheddu, Paolo Ruffini, Rodolfo Sacchettini, Attilio Scarpellini), segno evidente che forse quando il confine tra i due mondi si mantiene labile – ma sempre certo – a suggerire la condivisione si raggiungono risultati di maggiore rilievo: l’osmosi di scena e platea, quel filo sottile che conserva la funzione critica di chi agisce teatro, critica perché sceglie la propria distanza dalle cose, dagli avvenimenti, dalla realtà, e articola questa distanza attraverso il dubbio.
Ma veniamo al tema. Uno, fra i tanti di quella giornata densissima di confronto e di dedizione al pensiero in movimento. La società di massa si muove in un territorio acritico, non sviluppa cioè anticorpi di fronte alla depauperazione delle esperienze e si trova quindi a vivere in una continua reiterazione di schemi che si impongono per la loro quieta riconoscibilità, non in discussione, mai davvero in cerca di confronto ma di adesione. Il carattere elitario dell’arte, del teatro più di tutte le arti, meglio si intende quando sappiamo sostituire questo aggettivo e definirlo “esclusivo, selettivo”, raggiungendo così quella facoltà di scelta che la critica porta nell’etimologia.
I punti nevralgici in cui la società globalizzata riconosce i propri cardini sono quelli dove la collettività misura sé stessa: nel suo gruppo di lavoro, dove cioè confronta e mette in mostra le qualità teoriche o pratiche, e nel luogo che più limpidamente fa di quella mostra uno status e attesta l’esistente celebrandosi come specchio della realtà: il piccolo mondo ambìto, la televisione. Entrambi i luoghi dove per eccellenza i gruppi umani riflettono – o credono di farlo – lo stato dell’umanità presente, hanno curiosamente acquisito elementi mutuati dal teatro, dalla pratica artistica, ma trasfigurandoli per altri fini. Per ciò che riguarda il mondo del lavoro, ben evidente è in questi ultimi anni la mutazione in un grande orrorifico reality show, o meglio, uno di quelli in cui vengono messi in mostra i talenti, operando una distorsione di quello che è il concetto di merito, trasformandolo in “ciò che serve per mostrare la qualità”, e non la qualità stessa. Se, come ha ricordato Rodolfo Sacchettini, «oggi si fanno colloqui di lavoro incentrati sulla creatività», quindi strumentalizzando il meccanismo intimamente teatrale di plasmare elementi, il teatro torna durante e alla fine del ciclo sempre in relazione alle risorse umane, seguendo due schemi progettuali: da un lato affianca psicologicamente l’esperienza lavorativa (numerosi sono i laboratori-terapia per dipendenti), dall’altro costituisce una foce d’evasione (i gruppi organizzati dai CRAL aziendali).
Se però il lavoro è un luogo concreto in cui l’inserimento del teatro, sia pur controverso, è un connotato ancora tangibile e visibile, il discorso si fa più complesso per ciò che riguarda il luogo evanescente della società mediatica, quella “di là dallo schermo”, che vive dentro e illude mostrandosi viva anche dove giunge la trasmissione. Ma ci sono due peculiarità incontrovertibili che ci permettono di ribadire ancora una differenza: il sistema talk show che permea l’intera funzione televisiva si caratterizza per una proposta di adesione al concetto offerto, mentre in teatro – nel buon teatro – regna come detto il dubbio, un corpo di elementi non confezionati con cui misurarsi; la seconda riguarda proprio il supporto, quello schermo che svela una duplice illusione: se in apparenza il materiale dell’oggetto “schermo” sembra distanziare, possiamo allora ben dire che il suo processo sia di inglobare nel pensiero precostituito, mentre in teatro quella che appare come una vicinanza fisica di platea è in realtà una distanza siderale che porta a un incessante movimento, chiamando continuamente ad accettare di non essere più vicini di così. In questa tensione è dunque la forza che permette al teatro di conservare la propria esclusività e di farsi laboratorio permanente della società in trasformazione. Da questa rivendicazione inizia il percorso che riarma la critica, delegittimata dalla confusione di segni: occorre produrre continuamente quella particolare distanza e tenerla viva, perché se l’arte dialoga con l’invisibile, con ciò che non è ancora, a noi spetta di difendere l’indifendibile, ciò che non si conclude e che rinnova. Questo è l’unico esercizio che sappia restituire al teatro rilevanza culturale, perché da virus insopprimibile della società di massa si trasformi in un antidoto penetrante. E, per la sua indole sovversiva, intimamente rivoluzionario.
Simone Nebbia